L'analisi. Ecco perché alle banche serve una vera, laica santità
Le grandi crisi sono sempre processi di "distruzione creatrice". Fanno cadere cose che fino a ieri sembravano incrollabili, e dalle ceneri fanno sorgere delle novità, prima impensabili. Lungo la storia i grandi cambiamenti istituzionali sono stati generati quasi sempre da dolori collettivi, da enormi ferite sociali che hanno saputo far nascere, qualche volta, anche una benedizione. Le guerre di religione tra cattolici e protestanti diedero vita nel Seicento alle Borse valori e alle Banche centrali in molti Paesi europei. La stessa fede cristiana non era più sufficiente a garantire gli scambi commerciali e finanziari in Europa. Occorreva allora creare una nuova fede e una nuova fiducia (fides), che fu offerta da nuove istituzioni economiche e finanziarie da cui fiorì il capitalismo. Nella seconda metà dell’Ottocento la rivoluzione industriale creò una grave crisi del credito: cattolici e socialisti risposero dando vita a banche rurali, banche cooperative e casse di risparmio. Nel Novecento le guerre mondiali ci hanno lasciato in eredità nuove innovazioni politiche e istituzionali (dalla Comunità Europea all’Onu), ma anche nuove istituzioni finanziarie (Bretton Woods). Come se soltanto nel grande dolore gli uomini fossero capaci, in quella notte, di guardare insieme e più in alto, sino a vedere, finalmente, le stelle.
Dopo il crollo dell’Impero romano i monasteri furono anche un evento economico. Mentre un mondo e una economia finivano, un nuovo mondo e una nuova oikonomia si riedificavano dentro le mura delle abbazie: ora et labora. Quegli edificatori della nuova Europa capirono che non si sarebbe risorti senza resuscitare anche il lavoro e l’economia. E così, mentre salvavano i manoscritti di Cicerone e Isaia, salvavano anche antichi conii di monete, tecniche contabili, codici commerciali, statuti mercantili, e soprattutto fecero dei monasteri una rete europea di hub dove si svilupparono fiere, commerci, scambi, perché lì era custodita e alimentata la fides-fiducia. Dal Vangelo i monaci avevano capito che l’economia era troppo importante per la vita, e se non è messa al servizio della vita diventa essa padrona della vita. E se ne occuparono.
Nel Quattrocento, poi, il movimento francescano generò i Monti di Pietà, in uno degli episodi più interessanti e straordinari della storia economica europea, sebbene largamente sottovalutato e frainteso. I Monti di Pietà furono istituzioni decisive per le città italiane, per i poveri, per le famiglie e per l’economia nel suo insieme. Nascevano dalla predicazione, infaticabile, dei Frati minori osservanti, che a partire dalla metà del Quattrocento ne fondarono centinaia, soprattutto nel Centro e nel Nord Italia. Le città si stavano sviluppando e arricchendo, ma, come spesso accade, l’arricchimento di alcuni (i borghesi) non portava con sé la riduzione delle povertà bensì l’aumento. I francescani capirono che c’era un nuovo volto di "madonna povertà" da amare, e senza indugio fecero nascere nuove banche, una nuova finanza che raggiungesse gli esclusi. E fecero qualcosa di sbalorditivo, che solo un carisma immenso come quello di Francesco poteva generare. Le banche, ieri molto più di oggi, erano icona dello "sterco del demonio", erano i "templi di mammona" immagine della lupa dell’avarizia. Francesco iniziò la sua storia dicendo "no" a quel mondo del denaro, il no più radicale che si potesse immaginare e che sia stato mai immaginato in Europa.
Le banche del tempo prestavano ai ricchi, e i poveri finivano spesso nelle mani degli usurai. La lotta all’usura fu la ragione della nascita dei Monti di Pietà. Bernardino da Feltre, Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano, Domenico da Leonessa, Marco da Montegallo e molti altri frati fecero della fondazione dei Monti la loro principale opera – alla fondazione del Monte di Firenze contribuì anche Savonarola. Fino al 1515 si contano sessantasei frati minori promotori di Monti di Pietà. Alcuni sono stati proclamati santi o beati. È stupendo che al centro dell’effigie di questi santi (ho recuperato personalmente quelle di Bernardino da Feltre e di Marco da Montegallo) ci fosse proprio il Monte di Pietà. Il simbolo di quella perfezione cristiana era proprio una banca, che da icona del peccato mortale diventava simbolo di santità cristiana. Come l’eucarestia, come i sacramenti, come il vangelo. Una laicità tutta biblica e evangelica, che abbiamo in buona parte perso con la modernità, e che lascia ancora senza fiato tutti coloro che (come me) credono che ci sono poche cose più "spirituali" della partita doppia e di un cantiere di lavoro.
Bernardino chiamava il Monte di Pietà: Monte di Dio: «Chi aiuta uno fa bene, chi due meglio, chi molti meglio ancora. Il Monte aiuta molti. Se dai denaro a un povero perché si compri il pane o un paio di scarpe, quando egli avrà speso il denaro, tutto è finito. Ma se quel denaro lo consegni al Monte aiuti più persone... Costruire chiese, comperare messali, calici, paramenti per le messe, è cosa santa, ma offrire denaro al Monte è più santo ancora. Non spendere denaro in pietre e calce, in chiese, perché tutto andrà in fumo, ma in ciò che non va perduto, cioè dando a Cristo nei poveri» (Sermoni di Bernardino da Feltre, vol. II). La nascita dei Monti è stato uno dei paradossi più affascinanti e generativi della storia europea. La spoliazione di Francesco, la sua rinuncia totale all’economia di suo padre Bernardone, il "nulla possedere" e il "sine proprio" generarono due secoli dopo delle banche. E vere banche erano, non istituti di beneficenza, tanto che la fondazione del primo banco di Ascoli Piceno nel 1458, in seguito alla predicazione di Marco da Montegallo, non è considerato da alcuni un vero e proprio Monte proprio per la mancanza del pagamento di un interesse sul prestito.
Il tema dell’interesse sul prestito è infatti centrale. Bernardino da Feltre fu il grande fautore della necessità della non totale gratuità del prestito; o meglio, della tesi che perché la gratuità che animava la nascita del Monte potesse durare ed essere sostenibile era necessario pagare un interesse, sebbene il più basso possibile. La sua non fu una battaglia facile, perché ebbe come oppositori teologi e giuristi (molti domenicani) che accusavano i Monti di usura, proprio per il pagamento di un interesse maggiore di zero. Così sempre nei suoi Sermoni risponde Bernardino: «Considerata la cupidigia degli uomini e la poca carità, è meglio che chi ricorre al Monte paghi qualche cosa e sia servito bene, piuttosto che senza nulla pagare sia servito male. Vuoi essere servito male? Non pagare. In questo chi ha più esperienza di noi frati? Viene uno al convento, si presenta al portinaio e gli dice: sono disposto a lavorare il vostro orto gratuitamente. Va, e poco dopo chiede colazione. È giusto." Quindi, in nome della gratuità, molti teologi di fatto impedivano la nascita dei Monti o la contestavano pubblicamente, come nel caso della fondazione del Monte di Mantova nel 1496.
È questa una delle più importanti e convincenti dimostrazioni della differenza tra la gratuità e il gratis: un contratto, con il necessario pagamento, può contenere più charis (gratuità) di un atto di pura liberalità. La gratuità qui non coincide con il dono. La gratuità del Monte si esprimeva in molte altre cose: prestare a lungo termine (e non richiedere indietro il prestito entro un mese o una settimana, come facevano gli usurai), chiedere un tasso che coprisse solo le spese, prestare solo per reali necessità, se il mutuatario non riusciva a riscattare il pegno percepiva il di più che il Monte otteneva dalla vendita, prestavano possibilmente a tutti. Erano istituzioni senza scopo di lucro, o sine merito. Bernardino distingueva l’interesse che nasceva dal prestito (sbagliato) dall’interesse per il prestito (per consentire l’esistenza del Monte). In nome della pura gratuità alcuni Monti o non partirono affatto, o finirono in bancarotta presto o divennero proprietà di alcuni ricchi mercanti che mettendo il capitale per coprire le spese di gestione da bene di comunità lo trasformarono in bene privato.
Infine, impressionante è una tecnica retorica di quei frati minori, usata soprattutto da Marco da Montegallo. Per mostrare la gravità del prestare il denaro agli usurai, il beato confrontava il bene che si faceva prestando al Monte con la spropositata ricchezza che gli usurai ricavavano investendo quella stessa somma. Scriveva nella sua "Tabula della salute": «È da sapere che cento ducati dati a trenta per cento l’anno, dopo cinquanta anni li detti cento ducati che furono il primo capitale, tra interessi et capitale montano e sommano: 49.750.556,7 ducati». Una somma enorme, frutto di anatocismo (interessi sugli interessi), che doveva colpire molto la fantasia dei suoi uditori - e la nostra. E convincerli. Quei francescani risposero così alla grave crisi del loro tempo, dando vita a nuove istituzioni bancarie. Lo fecero perché conoscevano i bisogni veri della gente, e quindi capirono che nelle grandi crisi occorre riformare l’economia e la finanza, e non solo temerle, facendo banche nuove, non solo criticando le vecchie.
Oggi siamo nel mezzo di una crisi mondiale di dimensioni non diverse dalle grandi crisi dei secoli passati. Serviranno nuove istituzioni, anche finanziarie e assicurative, capaci di gestire il durante e il dopo-Covid, che lascerà il mondo ancora più diseguale, con poveri ancora più poveri. Mentre pensiamo a queste novità, quell’antica creazione dei Monti ha delle importanti lezioni da darci. La prima riguarda la natura stessa dell’economia e della finanza. Le banche e il denaro sono creazioni umane, sono vita, non vanno demonizzate, perché se le demonizziamo diventano veramente demoni. Vanno trattate come si tratta la vita. Di fronte a una finanza che aumenta la povertà si può e si deve rispondere creando un’altra finanza che le riduce.
Infine, questa splendida storia francescana ci suggerisce che anche oggi è probabile che i nuovi Monti di Pietà, certamente molto diversi da quelli del Quattrocento, non nasceranno dai ricchi mercanti e dai banchieri for-profit (che erano, sempre, i primi nemici delle fondazioni dei Monti), ma da chi conosce i poveri, li stima, li ama, perché ha ricevuto un carisma. Non necessariamente dai poveri, ma certamente dagli amici dei poveri. I frati non erano i proprietari dei Monti, erano solo i promotori, gli attivatori dei processi di creazione di quelle banche. Servono oggi nuovi "francescani", conoscitori e amanti dei poveri, che invece di maledire l’economia e la finanza, ne facciano, semplicemente, una diversa. Una nuova santità laica, nuove "effigi" con al centro imprese e banche.
l.bruni@lumsa.it