Non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo i segreti dell’avvenire, tutta la più alta sapienza di un uomo consisterà in queste due parole: sperare e attendere Alexandre Dumas, «Il conte di Montecristo»
Per parlare non bastano le parole della bocca, e a volte non servono. Parliamo anche con le parole del corpo, con gesti che spesso sono più forti, chiari, universali, radicali delle parole dette e scritte. Queste parole diverse a volte precedono quelle della bocca, altre volte le seguono e spiegano ciò che le parole dette non riuscivano a dire. Qualche volta le sole parole che abbiamo a disposizione per parlare, o le sole che possiamo capire, sono quelle delle nostre mani e della nostra carne. Le parole della lingua non sono buone né belle se non sono precedute, accompagnate e seguite da quelle del corpo, perché le parole disincarnate non sanno dire parole di vita.«In quel tempo il Signore parlò per mano di Isaia figlio di Amos. E gli disse: "Va’, sciogli il sacco che ti copre le reni, e dai piedi togliti i sandali". Isaia fece così, e andò nudo e scalzo» (Isaia 20, 1-2). Isaia riceve il comando di parlare alla sua gente con il suo corpo nudo e scalzo. Esegue l’ordine profetico, ma solo dopo un certo tempo gli viene rivelato il significato: «YHWH allora disse: "Come il mio servo Isaia per tre anni è andato nudo e scalzo, quale segno e simbolo per l’Egitto e Kush, così il re di Assur condurrà via i prigionieri egiziani e i deportati kushiti, giovani e vecchi, nudi e scalzi, con le natiche scoperte"» (20, 3-4).
Entriamo sempre più nel cuore della vocazione di Isaia. La sua nudità (che non è da escludere sia stato un fatto storico) ci svela un’altra dimensione essenziale della profezia. Ci sono delle fasi della vita di un profeta in cui capisce chiaramente che deve agire, compiere un’azione anche senza capirne il significato. In quei momenti c’è una chiarezza estrema sul che cosa fare («YHWH parlò e disse...»), ma non esiste alcuna certezza, e qualche volta nessuna idea, sul perché vada fatto, non si comprende il senso di quel gesto. Sentiamo di dover lasciare un lavoro, di finire una relazione, di entrare in convento o di lasciarlo, ma non sappiamo perché lo stiamo facendo, o quantomeno non siamo affatto certi che il senso che stiamo dando a quella scelta, e/o quello che gli altri le danno, sia quello vero. A volte il senso si svela molti anni dopo. Altre volte soltanto alla fine della vita, qualche volta mai, ma abbiamo continuato a "camminare nudi e scalzi" per la città, fino alla fine. Per i profeti camminare è più importante di capire il senso della corsa, perché il significato primo e più importante è quello della voce che ti dice di camminare. Si tradisce la vocazione quando smettiamo di camminare nudi e scalzi, non quando non capiamo più il perché. Non è mestiere del segno interpretare se stesso. L’esegeta, se c’è, deve essere un altro. I profeti sono significanti che non conoscono il proprio significato. Sta quasi tutta qui la gratuità-povertà-obbedienza-castità della loro vita, non poter conoscere il significato di che cosa sono e di che cosa fanno. Nei profeti allora si comprende, con estrema nitidezza, qualcosa che vale per ogni essere vivente, certamente per gli umani: non siamo padroni del senso ultimo delle nostre azioni, della nostra vita, della sua direzione e del suo significato. Siamo mistero a noi stessi. Qualche volta incontriamo un ermeneuta che ci spiega qualche nostra azione e brano della nostra storia, ed è grande festa; ma sappiamo che l’interpretazione dell’intero spartito non ci è data. Le nostre sinfonie sotto il sole, anche quelle maestose, meravigliose ed eroiche, sono sempre incompiute. Continuando a camminare in compagnia di Isaia, mentre siamo ancora ammaliati e incantati dal suo gesto profetico, voltiamo pagina e nel capitolo successivo ci attende uno dei cantici più belli di tutta la Bibbia. È lo Shomèr ma-millàilah?: «Sentinella: quanto manca al giorno?». «Mi disse il Signore: "Va’, sii sentinella notturna. Quello che vedi grida. Tendi l’orecchio, tendilo all’estremo". (...) Allora la vedetta gridò: "Nella torre di guardia, Signore, io sono colui che sta. Tutto il giorno resto al mio posto, mai di notte lo abbandono"» (21,6-8). Porsi come sentinella è la risposta di Isaia allo stesso comando di YHWH: «Va’». Si va diventando un segno muto che percorre le città nudo e scalzo, ma si va anche mettendosi di guardia "per tutto il giorno" e per "tutta la notte". Si va vagando sulla terra, si va restando nell’unico posto di vedetta. La sentinella è il profeta – tra le molte immagini della vocazione profetica, e forse di ogni autentica vocazione umana, quella della sentinella è quella che amo di più. Quella vedetta avvista carri, cavalli, cavalieri, vede la caduta di Babilonia. Ma poi scopriamo subito che è ancora un altro il mestiere-compito-missione di quella sentinella. Il testo subisce un’impennata poetica impensata, e la sentinella dal suo compito ordinario di avvistatore di nemici diventa voce dentro un misterioso, meraviglioso, dialogo: «Mi gridano da Seir: "Sentinella, quanto manca al giorno? Sentinella, quanto resta della notte?". Risponde la sentinella: il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete domandate, chiedete, tornate e domandate ancora» (21,11-12). È una vetta della poesia di Isaia, un vertice della coscienza dell’umanità. Un verso più grande del suo autore, più grande del già immenso libro di Isaia. Un puro dono di gratuità, perché sono parole non funzionali al lamento sulle città e, forse, nemmeno alla teologia di Isaia. Non servivano al suo discorso, potevano non esserci. Parole incomprensibili nel contesto, e che ogni generazione e ogni lettore ha dovuto interpretare e reinterpretare e continua a interpretare e a non afferrare. Un verso che dovrebbero commentare solo i grandi poeti, i veri maestri spirituali, chi ha conosciuto le notti infinite delle carceri e dei lager, o quelle delle lunghe malattie proprie e degli altri – "quanto resta della notte?". Ma tutti possiamo pregarle, cantarle e farci cantare da esse.
Il poema notturno della sentinella è molte cose insieme, e forse il primo senso che aveva in mente il suo primo autore è ormai perso per sempre. È la preghiera dell’attesa e della speranza nel tempo della notte, dell’attesa e della speranza di Dio, dell’amico, della pace, del paradiso, della giustizia, dell’amore che ancora non torna e che dovrebbe tornare. Il canto di chi lotta per non perdere la fede, di chi sa che l’alba arriverà ma non sa quando, e il buio continua. È il pianto delle notti dell’anima, che non finiscono mai. Ma è anche una rivelazione del mistero della vocazione profetica, e quindi dei carismi, di ieri, di oggi.Il profeta è sentinella della notte. Non è uomo o donna della luce, non è abitante del mezzodì. Sa che la notte non è per sempre, l’alba arriverà, ma soprattutto sa di non sapere quando e sa che «è ancora notte». Abita la notte, come tutti, ignorante, come tutti, del tempo dell’aurora. Non chiama la notte giorno, non accende fuochi per spegnere il buio. La conosce, è il suo tempo, e non dà risposte che non può dare. Il profeta non è un astrologo, non sa leggere le stelle, non è un indovino né un aruspice. Non è questo il suo mestiere. Lui è "colui che sta", rimane nel suo posto di vedetta notturna. E lì spera, attende, crede, non sa, come tutti, con tutti. Ma dialoga con i passanti, parla con i viandanti della notte: «Se volete domandate, domandate ancora, tornate a chiedere». Non può dare quelle risposte, ma non si rifiuta di ascoltare le domande. Non scaccia i domandanti perché non ha risposte da dare, e addirittura li invita a continuare a domandare, a tornare, a ritornare.Allora il profeta è l’uomo e la donna del dialogo notturno, è il compagno e la compagna del tempo delle domande senza risposte. Può solo rispondere donando le sue uniche due certezze: che è ancora notte e che l’alba arriverà. Non è esperto dei tempi, non tenta previsioni sul momento aurorale. La speranza profetica non nega la notte e non nega l’alba, e la sua fedeltà alla vocazione sta nel saper restare ignorante tra la notte e l’alba, e invitare i passanti a fare domande. I profeti amano il proprio tempo dialogando con chi chiede in cerca di risposte senza poter rispondere. E mentre abitano questa notte dialogante, iniziano i primi bagliori del giorno. Non c’è alba più bella di quella che ci sorprende in compagnia dei profeti onesti.La falsa profezia è negazione della notte o negazione dell’alba. Il profeta è sempre tentato di trasformarsi in indovino, in ermeneuta dell’alba che non c’è ancora e da molti agognata, dimenticando la realtà concreta della notte. Questi falsi profeti tradiscono la verità della notte, perché invece di restare solidali con tutti gli ignoranti del tempo pensano di annullare il buio offrendo la certezza sul tempo del giorno, come se la conoscenza del momento del termine della notte possa cancellare la realtà dell’assenza della luce. Dialogano sul futuro astratto e fanno perdere ai loro interroganti la concretezza della notte. Eskaton senza storia, paradiso senza terra, tempio senza piazza, risurrezione senza croce. Il profeta non è un venditore di futuri che non conosce, non è un tecnico del tempo, è soltanto un abitante ignorante della notte.
C’è poi il falso profeta che nega l’alba, e mentre annuncia onestamente che «è ancora notte» non dice anche che «il giorno verrà». È questa la tentazione che colpisce soprattutto i profeti onesti, che nel perdurare della notte, attorniati da venditori di falso futuro consolatorio, iniziano a pensare che la sola possibilità che hanno per essere solidali e veri con i passanti è cancellare la fine della notte, eternizzare il buio, cancellare l’attesa, la speranza e la fede. La storia perde l’eskaton, si resta crocifissi per sempre.
I profeti non-falsi sanno abitare lo scarto tra la notte e l’alba, sanno stare con la propria ignoranza e con quella dei passanti notturni, fedeli nel proprio posto di avvistamento. E accompagnano e riempiono la notte parlando e riparlando, ascoltando e riascoltando le domande di chi continua a chiedere: «Sentinella: quanto manca al giorno?».
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