Il referendum inglese . Brexit, da cosa ripartire dopo lo choc
Un colpo, un grave colpo all’Unione Europea. Su questo è difficile avere dubbi. Che conseguenze possa avere sul paziente già debilitato è ora oggetto di dibattito prima che lo si possa constatare direttamente. Il sorprendente voto britannico, che in una notte ha portato il premier Cameron dall’euforia di uno scampato pericolo alle dimissioni da capo del governo, sancisce, per adesso, la fine di un rapporto sempre contrastato e mai pienamente compiuto tra Londra e il Continente avviato sulla strada dell’integrazione. La storia istituzionale più si risale nel tempo più diventa noiosa e viene dimenticata.
Ma un semplice ripasso ci direbbe molto della Brexit di oggi. La prima domanda di ammissione inglese alla Comunità europea venne presentata nel 1961 e fu clamorosamente bocciata due anni dopo da De Gaulle con la motivazione per cui la Gran Bretagna sarebbe stata il cavallo di Troia degli Stati Uniti. Soltanto dopo l’uscita di scena del generale, nel 1969, partì la trattativa per l’ingresso britannico nella Cee, che si realizzò il primo gennaio del 1973. Quindici mesi più tardi, il governo laburista chiese di rinegoziare le condizioni di adesione e il nuovo Trattato, faticosamente stilato, venne sottoposto a referendum nel giugno del 1975, ottenendo il 67% di consensi. E fermiamoci qui. Da allora, l’Europa è cresciuta a 28 Paesi e ha prolungato a 70 anni il suo periodo più pacifico. Antipatie, rivendicazioni e dualismi non sono scomparsi, ma nessuno oggi direbbe che uno Stato vicino è pericoloso e va tenuto fuori dalla porta della casa comune.
La pazienza e la persuasione morale, sostanziata dall’attrazione che la Ue ha oggettivamente esercitato, hanno condotto nel novero delle democrazie il blocco dell’Est, compresi gli Stati balcanici, gli ultimi a essere passati attraverso un conflitto sanguinoso e foriero di spaccature e risentimenti.Ci aveva provato Cameron a evocare possibili guerre con l’allargamento della Manica, non poteva tuttavia risultare credibile, perché le vere battaglie sono fuori dalla memoria collettiva (grazie anche all’Unione) e l’unico scontro è quello incruento sulle tasse e la burocrazia. Ma il primo ministro apprendista stregone si è bruciato in un esercizio troppo difficile: non poteva competere con Farage e gli anti-europeisti sul loro terreno. Le concessioni strappate a Bruxelles per evitare la Brexit erano troppo poco per chi voleva tutto e la gente, comprensibilmente, alle copie preferisce sempre l’originale.
L’euroscettico tiepido David Cameron è stato sorpassato dall’euroscettico a tutto tondo Boris Johnson, tra i favoriti alla successione per il 10 di Downing Street. Non è stato un "voto con la mano sul portafoglio", anzi – a conti fatti – la rimessa per Londra potrebbe essere pesante.È stata la scelta di chi guarda al proprio cortile e pensa che il mondo finisca dopo la staccionata della propria villetta e nel ricordo dei fasti di un impero che non c’è più. Inutile nascondersi che a pesare più di tutto è stato il tema degli immigrati, europei ed extraeuropei. Da una parte le presenze reali in crescita in un contesto di crisi economica e, soprattutto, del welfare (gli stranieri – si dice – "rubano" sussidi e servizi); dall’altra, la retorica dell’invasione alimentata dai populismi che colgono problemi effettivi e concreti, ma poi scaricano sull’anello sociale più debole ogni responsabilità, eludendo la ricerca di buone soluzioni, che spesso non sono alla loro portata. La conseguenza della miopia del 52% degli elettori pro-leave potrà persino essere una disgregazione del Regno Unito, con la Scozia pronta a indire un altro referendum per l’indipendenza e l’Irlanda del Nord tentata da un riavvicinamento all’Eire.
Resta comunque l’Unione Europea a doversi interrogare seriamente sul proprio futuro. L’abbandono senza precedenti di uno dei membri più importanti sotto ogni punto di vista è la certificazione di un fallimento? Sarà l’inizio di una fuga? La tentazione è forte per chi individua nella lotta anti-Ue uno straordinario strumento elettorale. Non può e non deve essere così. Nel breve periodo, si deve innanzitutto raffreddare il clima, perché realisticamente non vi è nulla di nuovo che possa scaldare gli animi in direzione opposta per vincere eventuali referendum. L’appello diretto ai cittadini con un quesito secco è un metodo democratico valido ed efficace, non necessariamente l’unico e il più adeguato.
Che la nostra Costituzione lo escluda per certe materie sta a indicarlo. Piuttosto, sarebbe da rilanciare un processo di elezione diretta dei vertici istituzionali continentali, riducendo i livelli di mediazione. Un presidente dell’Europa eletto dai cittadini dei (ormai) 27 rappresenterebbe una presenza meno astratta rispetto ai fantomatici "burocrati" di Bruxelles, sospettati di non avere altro scopo che quello di complicare la vita alla gente. E poi, certo, un’Europa più solidale e meno arcigna e schiava del verbo iper-rigorista che ha dominato negli anni del dimezzamento della "grande politica", senza dimenticare che gli egoismi sono spesso il frutto di singole scelte nazionali, come dimostra il caso delle quote di migranti da accogliere.
Se le Borse si riprenderanno presto e il negoziato di uscita con Londra non sarà troppo doloroso, c’è persino il rischio che la lezione della Brexit non venga pienamente recepita. Sarebbe un errore grave, non più però di quello che molti stanno commettendo in queste ore. Non dirsi, cioè, orgogliosi di un’Europa che, pur con tutti i suoi limiti, ha saputo unirsi e camminare insieme, forte - che lo si ammetta o meno - dei suoi valori cristiani e umanistici. Solo di qui, da questa storia e da questo orgoglio, si può ripartire.