Opinioni

Il ricordo. Quando Eugenio Borgna mi diceva che l'inferno è essere soli

Marina Corradi venerdì 6 dicembre 2024

Eugenio Borgna nel ’43 aveva 13 anni. Suo padre, partigiano cattolico, combatteva in val d’Ossola. Da Borgomanero la madre aveva portato i figli in un paesino sopra al lago d’Orta, per timore di rappresaglie. Abitavano vicino alla chiesa. Un’attesa silenziosa e interminabile. Nel timore che i tedeschi bussassero. E un giorno i tedeschi bussarono: voci ostili, andirivieni di stivali. Chiesero del padre. Eugenio, che studiava il tedesco, rispose mitemente che il papà non era lì. Tanto si sorprese l’ufficiale – un bambino italiano che gli rispondeva gentilmente nella sua lingua, in giorni in cui in Italia si maledivano i tedeschi – che richiamò i suoi, e se ne andò. Il ragazzino con gli occhi chiari, esile, tornò nella sua stanza. Certi pomeriggi a quell’età sono infiniti se, a fronte dell’ansia di vivere, la vita sembra sospesa.

Dopo anni che lo intervistavo, il professor Borgna, uno dei massimi psichiatri italiani, morto mercoledì all’età di 94 anni, mi raccontò di quei suoi giorni adolescenti accanto a un campanile che batteva ogni quarto d’ora, anche di notte: «Nel sonno continuavo a svegliarmi, scoprendo un tempo che non passava mai. Un tempo immobile. Le lancette dell’orologio avanzavano regolarmente, ma io mi affacciavo sulla vastità infinita del tempo interiore». Scopriva intuitivamente che c’era il Kronos, scandito dall’orologio, ma anche un tempo interiore, il Kairos, il tempo in cui “qualcosa” accade in noi. Forse il tocco ostinato di quel campanile inclinò il giovanissimo Borgna all’esplorazione del mistero più grande, il cuore dell’uomo. E soprattutto di quegli uomini che sembravano internamente “rotti”, frantumati, o andati molto lontano: i folli, che allora venivano reclusi nei manicomi. Legati, magari, anche perché violenti, almeno prima dell’avvento degli psicofarmaci.

Mi immagino la pena con cui, tirocinante negli anni ’50, Borgna ascoltava i malati reclusi da decenni. La prima volta che lo incontrai, all’Ospedale di Novara, si era ormai a fine anni ’90: la Basaglia era legge da tempo. Gli chiesi però dei malati di una volta. Mi raccontò di una donna anziana, “dentro” da vent’anni, che non voleva nessuno, non parlava, non mangiava. Inutili i tentativi del giovane medico, finché ebbe una intuizione: le mise sul tavolo una rosa. Una rosa ogni giorno. La donna riprese a mangiare.
Di psichiatri così, nel 2000 ne erano rimasti pochi. Gli psicofarmaci erano stati una scoperta straordinaria, ma già c’era la tendenza a usarli come bottoni per correggere ogni passeggera depressione, o ansia, o l’isolamento di un adolescente – senza cercare di capire. Borgna, seguace della fenomenologia di Ludwig Binswanger, era invece un uomo che stava ad ascoltare. Che ascoltava anche le monotone dolenti lalie di certi psicotici, cercando l’istante in cui la incomunicabilità si sciogliesse, e quell’uomo ti guardasse negli occhi.

Leggeva moltissimo: psichiatria, poesia, cristianesimo. La sua scrivania era presidiata sui due lati da colonne alte di volumi in equilibrio precario. Scorrevo i titoli: Jung e sant’Agostino, Shakespeare e Etty Hillesum, Benedetto XVI e Simone Weil. Il suo verso preferito era di Holderlin: «Noi siamo un colloquio». Era questa l’assoluta certezza di Borgna: l’uomo tende inesorabilmente al volto dell’altro. Non siamo monadi, diceva, e aggiungeva: «L’inferno, è essere soli». Il prossimo come destino e salvezza, in questa vita. Ma, domandavo io, quando poi si invecchia, quando gli amici se ne vanno e resti solo, quale “altro” ci resta, professore? A lei non fa paura, la corsa del tempo? Il Professore: «Ho imparato che una sola dimensione riscatta il tempo, ed è la speranza. La speranza che, come dice Gabriel Marcel, è la memoria del futuro. Perché anche ciò in cui speriamo nasce, attinge comunque dal nostro passato. Le cose accadute non sono cancellate, ma come da correnti carsiche rinascono, e danno contenuto alla speranza».
E cosa, insistevo io, salva dalla pressione del tempo, quella che sembra poterci divorare? «Ci salva la contemplazione, e la preghiera: la preghiera, il dialogo con Dio, è la sola lanca in cui la corrente del fiume del tempo si ferma». E di colpo, guardandomi sorridendo, mi chiese: «Vero, Marina Corradi?» Sussultai come un’alunna sui banchi. Perché quel sorriso? Mi chiesi. Come dicesse: «Perché vuoi farmi dire ciò che in fondo sai, e fingi di non sapere?».

A oltre novant’anni, lui era giovane. Lo andavo a trovare nella sua casa a Borgomanero, ormai senza il registratore. Pensavo: Dio tiene da conto gli uomini così. Li usa come aghi, per riparare le ferite lacerate. Mi è doloroso, pensare che non tornerò più in quel giardino. Ma sono triste per me, abbandonata, non per Eugenio Borgna. Ci lascia i suoi bellissimi libri. E io - lo so - vivo in un tempo che non conosco. Forse quello che Benedetto XVI chiamò “l’eterno presente di Dio” (anche questo, me lo ha insegnato il Professore).