No, non sarà uccisa Asia Bibi. Lo hanno fatto capire informalmente le autorità pachistane. E quando mai, del resto, il Pakistan ha giustiziato qualcuno per blasfemia? Possiamo allora stare tranquilli. La condanna di questa donna – colpevole di aver solo offerto dell’acqua resa impura dal suo essere cristiana alle contadine che lavoravano con lei e di essersi difesa dalla loro protervia contro la sua fede – sarà sospesa. Poi rivista e quindi arriverà la grazia. Come in Pakistan è già successo ad altri cristiani (o a fedeli di altre minoranze religiose) prima di lei. Certo, probabilmente dovrà andare in esilio per non essere linciata da qualche zelante islamico. E le sue figlie, già scampate alle violenze della folla aizzata dai fondamentalisti, con lei. Magari suoi parenti saranno trucidati a tradimento. Quando sarà graziata, come sempre accade in questi casi, qualche jihadista brucerà case e negozi di cristiani per ritorsione. E magari ne ucciderà qualcuno. E quindi no, nonostante le ipocrite rassicurazioni offerte ufficiosamente dal governo di Islamabad al nostro ministro Frattini, che con forza ha denunciato l’iniquità e la brutalità di questa condanna, non siamo per nulla tranquilli.Ci indigna che la legge anti-blasfemia imposta dalla deriva radicale islamica molti anni fa sia diventata un mezzo per punire i cristiani e i non musulmani, esposti senza difese a un’applicazione dogmatica e stolidamente letterale della Legge islamica. Basta che dinanzi a un tribunale religioso quattro testimoni musulmani accusino qualcuno, affermando di averlo sentito bestemmiare, e la condanna è certa. Una perfetta arma di ricatto contro singoli o contro le comunità cristiane, uno strumento di minaccia e di oppressione. Certo, non una protezione per l’islam, come sanno bene le autorità governative che intervengono per bloccare – quando non si procede per via sommaria – quelle condanne.Ma ci indigna anche la pigra indifferenza della maggior parte dell’Occidente. E non solo per questo caso. Da decenni soffia nei vari continenti un vento anti-cristiano che, in alcuni Stati, si è trasformato in cupa tempesta. Un turbine d’odio che punta a sradicare le sempre più sparute minoranze cristiane dalle terre in cui vivono da sempre, quasi non avessero diritto ad abitare la terra dei loro avi come le altre comunità dominanti. Eppure, la nostra voce è flebile. Quasi la modernità e la laicità dei nostri stati fossero un freno a difendere i diritti di comunità bersagliate dalla violenza, in Iraq, come in Egitto, in India come Pakistan o in Sudan. Proprio perché cristiane. Si dice a volte di voler evitare interferenze controproducenti, di non voler sembrare neo-colonialisti. Ma che c’entra il colonialismo, la cui triste storia si svolge negli ultimi secoli, con la difesa di popolazioni che vivono in quelle terre da molto più tempo, da millenni? E cosa è più controproducente di un vile silenzio, magari per convenienza politica o economico-commerciale?La verità è che l’unica difesa per Asia – e per tutti i cristiani e i non musulmani che verranno ingiustamente condannati dopo di lei – risiede nella nostra capacità di parlare a una sola voce al governo pachistano, con la richiesta di abolire una volte per tutta questa vergognosa, barbara legge. Non è facile farlo per Islamabad, è ben noto. Troppe le pressioni dei radicali islamici che ne condizionano le scelte. Ma come chiediamo da anni al Pakistan di rompere i legami che ancora mantiene con le milizie talebane, così dobbiamo insistere per questa cancellazione. Islamabad è troppo importante dal punto geopolitico – dice chi non vuole impegnarsi –, ben più della tutela delle sue minoranze. Ma anche noi, con l’aiuto finanziario continuo della comunità internazionale, siamo importanti per loro. Nessun ricatto. Ma è tempo di essere consapevoli che la nostra assistenza e la nostra cooperazione non possono prescindere dal rispetto di alcuni diritti umani fondamentali. Per tutti, e quindi anche per Asia.