Medici e obiezione, perché intervenire. Tre ombre e una luce. Ora serve ragionevolezza
Una luce, tre ombre. Questa la sintesi a caldo del testo sulle Dat riveduto e corretto dall’aula di Montecitorio. Cominciamo subito dalla luce. L’abbandono del meccanismo rigido delle diposizioni anticipate di trattamento (le Dat). Le dichiarazioni scritte del cittadino, che ora per allora voglia indicare a quali terapie sottoporsi e quali escludere, non sono più totalmente vincolanti. Il testo redatto da un cittadino in piena salute davanti ad un notaio o ad un burocrate, nel giorno in cui quel testo diventa efficace perché il cittadino, a causa di uno stato di incoscienza non è più in grado di esprimere preferenze o rinunzie terapeutiche, potrà essere disatteso dal medico ove contenga disposizioni «manifestamente inappropriate» o «non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente». Il medico recupera così, almeno in parte, il suo ruolo e la sua autonomia di giudizio in scienza e coscienza. Passiamo alle ombre. La prima delicatissima. Il medico non può praticare trattamenti «inutili e sproporzionati»: sono gli elementi con cui si configurerebbe un accanimento terapeutico, quindi sin qui niente di nuovo.
Ma con un emendamento si è introdotta una seconda tipologia di abbandono delle terapie, che si potrà verificare nel caso di paziente con «prognosi infausta a breve termine»: in questa circostanza (nonché in quella di imminenza di morte) il medico «deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure». Ora, l’espressione «ostinazione», pregna di soggettività e di ampia discrezionalità interpretativa, può fare intendere sia una persistenza di cura inopportuna, sia l’impegno di un medico che 'non si risparmia', ce la mette tutta. Che poi questo impegno sia ragionevole o irragionevole, lo si saprà soltanto a distanza di tempo. Quante situazioni di malati – e ciascuno di noi li ha davanti agli occhi – con prognosi infausta asseritamente «a breve termine» che poi, invece, non ha impedito di continuare a vivere mesi se non anni, con il paziente, che, in quel frangente 'regalato', è potuto ancora stare vicino ai suoi cari, ha potuto realizzare qualche piccolo o grande sogno, è stato un punto di riferimento nella pienezza di una vita degna esattamente come quella di tutti gli altri non malati. Facciamo attenzione, ritenere che il medico, in queste situazioni, debba sempre astenersi (il verbo utilizzato è «deve», dunque si tratta di un obbligo) può essere l’anticamera dell’abbandono terapeutico, cui incideranno anche il timore delle conseguenti responsabilità del sanitario, la cui condotta, anzi il il cui intento («ostinazione irragionevole») verrà giudicato da un magistrato, per di più in quadro strutturale di una sanità attanagliata dall’esigenza del risparmio dei costi e, dunque, talvolta incline a fare ciniche scelte efficientiste. Seconda ombra: il medico non potrà mai sottrarsi dal procedere al distacco del presidio salvavita, ove il paziente lo richieda. È il frutto dell’assenza di un diritto all’obiezione di coscienza del medico.
Si è indebitamente parlato di un’obiezione soft, adducendo che l’approvazione dell’emendamento che recita che «il medico non ha obblighi professionali» ovvierebbe a tale assenza. Le parole delle leggi – soprattutto per i giudici che le applicheranno – sono pietre, e assenza di «obbligo professionale» non è un sinonimo di «obiezione di coscienza». L’assenza dell’obbligo professionale è agganciato alla norma che stabilisce che il paziente non può «esigere trattamenti sanitari» contrari a legge, deontologia, buone pratiche; e se il paziente non può «esigere» tali trattamenti – che evidentemente potrebbero contemplare anche richieste di eutanasia attiva – dall’altra parte, il medico non ha «a fronte di tali richieste», appunto, «obblighi» professionali. Si tratta di un’aggiunta lapalissiana, ridondante e, dunque, giuridicamente inutile. Non si dice, invece, nulla a proposito della vera materia del contendere, che non è la richiesta di un trattamento per porre fine alla propria vita; ma la rinunzia ad un trattamento salvavita: è anche qui che si misura la libertà del medico di assecondare le richieste del paziente che riguardano, non già trattamenti illeciti da eseguire, ma terapie o presidi da interrompere, comprensivi, tra l’altro, anche di quelli relativi all’idratazione e alla nutrizione. Quest’ultima è, dunque, la terza ombra che richiede aggiustamenti in Senato. La norma a tal proposito indica che si potrà rinunziare (dunque con intervento del medico) anche al sostentamento vitale e, in questo caso, il paziente non verrà dimesso ma verrà accudito, anche operando la sedazione profonda.
Il medico sarà obbligato ad assecondare la legittima richiesta di interruzione del presidio vitale e, la altrettanto legittima richiesta di sedazione (che in quanto tale non provoca la morte). Ma la combinazione della rinunzia al presidio vitale e il trattamento di sedazione profonda porterà inesorabilmente alla morte del paziente, che, peraltro, non è detto che versi in situazioni di fine vita, poiché qui la legge consente tale pratica a chiunque e a prescindere da uno stadio terminale della propria esistenza. E, in questi casi il medico, non potrà obiettare, né lui, né le strutture sanitarie, comprese quelle di tendenza. Si confida, dunque, che la ragionevolezza che ha portato a rivedere alla Camera la portata vincolante delle Dat, riemerga al Senato anche con le tre zone d’ombra così ricordate.
*presidente nazionale di Scienza & Vita