Non è difficile in questi giorni notare, in pieno scontro ideologico sulle diverse posizioni in merito al testamento biologico, come il fronte laicista appaia pressoché monolitico, determinato e assolutamente certo delle sue verità, mentre nel più variegato mondo cattolico si assiste a un dibattito articolato e complesso, senza dubbio segnale della vivacità intellettuale dei credenti ed anche della necessità di veder coniugate le proprie convinzioni personali con il senso vero dell’appartenenza ecclesiale. Questo dato, certamente positivo (non era la Chiesa la fonte dell’autoritarismo indiscusso e della obbedienza cieca?) ha creato in questi giorni una certa confusione: da un lato si è infatti colto come i due piani – quello della personale ricerca intellettuale e quello dell’appartenenza ecclesiale – vadano decisamente scissi, in nome di una concezione della laicità libera da condizionamenti gerarchici, dall’altro come di fatto i due piani appaiano malamente confusi, in nome di una necessità di veder coinvolta la gerarchia ecclesiastica nel dibattito pubblico e politico. Prima che dei contenuti, è sul metodo che dovremo un poco riflettere: un conto è aprire fra i cattolici una discussione aperta e pubblica sui temi morali più generali che stanno necessariamente sullo sfondo di pratiche bioetiche più specifiche – come l’idratazione e l’alimentazione e il loro utilizzo –, un altro è pensare di coinvolgere la Chiesa su questioni in cui si è già espressa in modo chiaro. È infatti curioso notare come anche da parte dei cattolici laici si critichi la sovraesposizione delle gerarchie su temi eticamente sensibili e presenti nel dibattito pubblico, salvo poi chiamarle in causa per coinvolgerle in prima persona e cercarne il consenso. Che alcuni filosofi credenti in questi giorni abbiano pensato di esporre le loro convinzioni in tema di testamento biologico, chiedendo un consenso ai colleghi e aprendo un dibattito al loro interno, non può che suscitare interesse: alcuni hanno dissentito civilmente, altri hanno concordato. Che invece questo testo, diretto ai vertici della Cei, sia uscito dalla riservatezza e pubblicato, è cosa che non può che destare sconcerto. Vale la pena, a questo punto, indicare il punto cruciale su cui si sono mosse le considerazioni bioetiche degli estensori della lettera, che ruota attorno al principio di autodeterminazione del paziente, detentore dell’irrinunciabile pratica della libertà, specie quando questa diventa garanzia giuridica della rinuncia alle cure. Ogni filosofo può teorizzare a piacimento sulle infinite ed eticamente feconde implicazioni giuridiche del diritto di autodeterminazione, ma il filosofo credente non può non fare i conti con il valore normativo della rivelazione cristiana, che custodisce la verità sull’uomo e sulle possibili incarnazioni della legge morale. Pur aprendosi in questo campo alcune differenti interpretazioni su tale principio, non è difficile supporre che l’autodeterminazione debba incontrare una qualche forma eteronoma che la orienti e la indirizzi. Si può insomma sempre laicamente discutere, ma sempre che questo dire incroci la qualità normativa della libertà umana, che per il credente non è un «dato» da gestire autonomamente, ma è «data», donata cioè da Chi dimostra di aver cura delle umane vicende.