Quella bimba rifiutata eppure accolta ci fa riflettere sulla buona «tradizione»
Caro direttore,
non mi sento di esprimere alcun giudizio sulla scelta di coloro che non si sono sentiti di avviare la procedura per l’adozione della bimba con sindrome di Down nata a Napoli. Al signore gentile che invece ha deciso di prendersene cura rivolgo i miei migliori auguri e gli dico anche “forza e coraggio”. Mia sorella Maria Claudia, 39 anni (a fine mese 40), ha la sindrome di Down: non parla, non legge, non scrive, ha una limitata autonomia personale. Tante altre persone con la sindrome di Down, però, oggi frequentano la scuola (con un qualche profitto) e alcune sono inserite (produttivamente) nel mondo del lavoro. Non è stato facile crescere assieme: né per me, né per gli altri miei due fratelli, né per i miei genitori, né tanto meno per Claudia. Ma è stato altresì (ed è) meraviglioso. Parola di fratello.
Federico Girelli, Presidente Comitato Siblings – Sorelle e fratelli di persone con disabilità www.siblings.it
Gentile direttore,
ho letto la lettera che le ha inviato Matteo Renzi e che lei ha titolato «Sindrome di Down. Che gioia e dono vivere con Maria. Parola di zio» (“Avvenire”, 7 ottobre 2017). Mi dispiace costatare che anche lui cade nel “pregiudizio” che «...sette coppie tradizionali non hanno voluto adottare una bimba con sindrome di Down». Leggendo molti giornali particolarmente di sinistra (ma non solo), la famiglia naturale (originale) viene travisata – volutamente – con famiglia tradizionale facendo il gioco di chi vorrebbe distruggere la famiglia uomo-donna-figlio. «Tutto è famiglia» è il loro grido. La tradizione può essere “rivista”, la natura no. Grazie per l’accoglienza.
Gianfranco Antinori, Roma
Che cosa hanno in comune queste due lettere, per le quali ringrazio entrambi gli amici lettori? A prima vista nulla. La prima lettera è costruita con appassionata originalità sul modello di quella che il leader del Pd Matteo Renzi, «da zio e padrino di battesimo di una bambina con sindrome di Down», ci ha scritto sull’onda dell’emozione suscitata anche in lui da un recente e doloroso caso di cronaca. La seconda mette da parte la questione propria – quella della bellezza e della difficoltà della vita delle persone con trisomia 21 e dei loro familiari – e prende, invece, spunto da un’espressione usata da Renzi per ragionare (polemicamente) su un “gioco distruttivo” (lessicale e politico) nei confronti della famiglia madre-padre-figli che è in corso in diverse società del nostro tempo. In realtà, però, qualcosa che unisce le due lettere c’è ed è molto importante: la tradizione. Una delle parole che amo di più, perché è piena di futuro, figlia com’è di un verbo latino – tradere – che è puro movimento in avanti e significa gesti generosi e senza ombre: trasmettere, passare, affidare, offrire, donare… Ma so bene che viene anche interpretata e scandita in un senso esattamente contrario, come espressione massima della custodia immobile di un passato ancora più immobile. Un errore grave. Anche di vocabolario.
Dunque, a mio parere, l’idea di tradizione abita implicitamente nella prima lettera perché essa si concentra, proprio sullo scontro di queste due visioni, di due modi di pensare e di vivere che possono essere definiti “tradizionali”: uno antichissimo, che spinge sino al rifiuto e allo scarto, per nulla compassionevole, dei figli “imperfetti” e delle persone “scomode” (secondo i canoni della normalità e dell’utilità fissati dal pensiero dominante) definiti entrambi e in modo liquidatorio “infelici”; l’altro – al contrario – accogliente, empatico, coraggiosamente aperto che è emerso poco a poco, sino a sembrare vincente, ma che stenta terribilmente a restare forte nel tempo dell’«egolatria». Nella seconda lettera, la questione è invece del tutto esplicita e l’amara riflessione del lettore Antinori si basa sulla perfetta identità tra “naturale” e “tradizionale”, ma anche sull’idea che l’aggettivo tradizionale sia ormai inevitabilmente dispregiativo.
Non sono d’accordo. E mi sforzo, da anni ormai, di capovolgere il ragionamento. La riflessione che credo che sia necessario sviluppare è sulla non perfetta coincidenza di natura e tradizione, perché la tradizione, nel senso che anche a me è caro, è sempre “natura più cultura”, e non mai solo natura. Di fronte a un figlio con sindrome di Down tradizionale è il rifiuto e tradizionale è l’accoglienza, perché nella natura (umana e animale) ci sono le due possibilità. Una più comoda ma sbagliata, l’altra (come anche Renzi ci ha scritto e il signor Girelli ci conferma) più difficile, ma bella, buona e giusta. La cultura che ci ha nutrito e ci nutre, e che noi trasmettiamo, può ingigantire o l’una o l’altra possibilità, il male o il bene. Il cristianesimo, che è religione, e cultura viva, ingigantisce la possibilità rappresentata dalla cultura dell’accoglienza: accoglienza della vita, tutta, sempre, senza eccezioni, non senza fatica, ma con tenace gioia e fame di bene e di giustizia per tutti, a cominciare dai più “poveri”, gli scartati per qualunque motivo. E, grazie a Dio e agli uomini e alle donne di buona volontà, il cattolicesimo non è la sola cultura (religiosa o laica) capace di operare in questo senso. Abbiamo alleati e possiamo e dobbiamo trovarne di nuovi.
Che ci siano però anche culture che agiscono in senso più o meno opposto – motivando o “assolvendo” sia esclusioni sia confusioni – purtroppo è sotto gli occhi di tutti, così come è evidente che esse stanno riprendendo piede con parole d’ordine false, modulate a seconda delle circostanze sui registri di una letale pietà o di un sospetto e un odio repulsivi. Anche questo è drammaticamente “tradizionale” nella vita dell’umanità. Per questo dobbiamo aver chiaro in quale tradizione vogliamo stare, trasmettendola e accrescendola dentro una storia di sempre maggiore consapevolezza del bene reale, possibile, necessario. E non possiamo consolarci con il richiamo alla natura. Decisiva è la cultura con cui interpretiamo lo spartito della natura, cioè la testa, il cuore, gli occhi e le mani con cui viviamo, conserviamo e sviluppiamo la nostra umanità, custodiamo il mondo e lo rendiamo migliore. Auguri di cambiare a chi non ha saputo e non sa abbracciare una bimba “imperfetta”, in fondo come ognuno di noi. Auguri di ogni bene a chi l’ha fatto e, ogni giorno, lo fa. Questa è buona tradizione.