Opinioni

Benigni e la «memorabile» Italia. C'è da cantare e da far festa

Marina Corradi sabato 19 febbraio 2011
Aprire gli occhi alle sette meno un quarto del mattino. I figli stanno per andare a scuola. Tendi l’orecchio: mentre si lava la faccia, uno di loro canta. Canta l’inno di Mameli, con quella voce appena arrochita che viene ai maschi, a quindici anni. Resti a ascoltare stupita. Come mai Mameli?, gli domandi, quando s’affaccia in cucina. Mamma, risponde, vai su Youtube a vederti Benigni sul Risorgimento, è stato bellissimo.Bello, davvero. Bello e inusuale, oggi, sentire parlare d’Italia a quel modo: con memoria e gratitudine. Ci voleva un poeta per osare, in tempi avviliti e rabbiosi, parlare così dell’Italia. Perché i poeti, come ha detto Benigni, sono spinti dal desiderio. E il desiderio è il motore grande che muove la storia e i popoli: il desiderio di un bene comune, di continuare, e tramandare passioni e memoria nei figli.Ci voleva anche un po’ di coraggio, in questo febbraio 2011, per esortarci all’«allegro orgoglio» di appartenere al luogo in cui viviamo, al popolo da cui veniamo; per dirci che «occorre volere bene al Paese in cui si è nati». Benigni ha avuto questo coraggio, in tempi in cui da tv e giornali ci si rovesciano addosso ogni giorno cronache di miserie e insulti. Ci ha raccontato da quanto lontano viene la nostra storia, e quanta bellezza ha creato, e in quanti sono morti per raggiungere quell’unità d’Italia che oggi è scontata o contestata. Da Balilla ai Carbonari, da Mazzini a Garibaldi a Pisacane, Benigni ha raccontato il Risorgimento come un’opera "visionaria e carnale": la resurrezione del corpo dell’Italia dilaniato dai dominatori stranieri. Retorica? Forse, anche, perché quegli anni come tutte le epoche hanno avuto le loro ombre e vittime, e i padri della patria non erano santi, e i garibaldini men che meno. Ma in un tempo di avvilimento e veleni è controcorrente la splendente retorica di Benigni: a ricordare a noi ex studenti distratti la nostra storia piena di eroi e passioni e peccatori. A dirci anzi che se apriamo gli occhi, questo nostro è un Paese grande e «memorabile».L’Italia si è commossa, l’altra sera. Sul Web, centinaia di commenti meravigliati: gente che dice grazie, perché ha capito che cos’ha alle spalle questo Paese di cui spesso all’estero oggi si sorride; e quanto è costato metterlo assieme, smembrato com’era, e che il 17 marzo qualcosa da festeggiare c’è, davvero. A nome di tanti Napolitano ha detto grazie a Benigni. Qualcuno invece non ha apprezzato: chi soffia male sui localismi, chi sogna nuovi confini e piccole Italie privilegiate. Non ha apprezzato probabilmente anche chi nelle lacerazioni ha il suo pane. Non piace, quell’istante di timido incredulo orgoglio comune, a chi ama disfare più che costruire. Ci ha ricordato in fondo, Roberto Benigni, ciò che spesso avvertiamo senza dircelo: la coscienza della cultura e della ricchezza e della bellezza di questo Paese, di ciò che ha dato, di ciò che è. Ha preso voce sul palco dell’Ariston quella sorta di tacita contentezza che proviamo quando, venendo da lontano, le ruote dell’aereo toccano terra, e siamo tornati in patria; e con tutti i nostri vizi e scandali, sappiamo in fondo che non cambieremmo questa terra con nessuna.C’erano, certo, sui libri di scuola, i nomi e le battaglie ricordati nella lezione di Sanremo; ma si sa che i libri non bastano, se non c’è un maestro capace di affascinare e commuovere. Benigni l’altra sera è stato questo. Poi, quando ha intonato l’inno di Mameli a bassa voce, immaginando il canto solitario e notturno di un soldato ragazzo, alla vigilia di un’epica battaglia, quella marcia che cantavamo a scuola o allo stadio senza capire bene le parole, d’improvviso è sembrata una preghiera. Una sommessa preghiera per l’Italia. E davanti allo schermo si è rimasti zitti. La mattina, alle sette meno un quarto, quel figlio quindicenne che dal bagno canta: fratelli d’Italia... Un po’ più contento, un po’ più grato di appartenere a un popolo; di essere nato in un memorabile Paese.