Le sfide dell'ambiente. Bellezza e ricchezza per tutti: proteggiamo le nostre spiagge
L’erosione minaccia gli 8mila chilometri del nostro litorale, che rappresenta il 40% di tutte le coste balneabili d’Europa, con ricavi turistici dall’estero che raggiungono quasi i 7 miliardi
C’è una parola complicata che abbiamo imparato ad associare alle nostre coste: 'ripascimento'. È il processo di riqualificazione di spiagge e territori litoranei colpiti dell’erosione. Una parola che da decenni risuona lungo le coste del Belpaese: in questi mesi, in particolare, echeggia dal litorale laziale alle spiagge di Castiglion della Pescaia in Toscana, da Misano o Rimini in Riviera a Roseto degli Abruzzi o lungo le spiagge dell’intera Liguria. In generale, è un termine diffuso lungo i nostri tremila chilometri di spiagge che nell’ultimo mezzo secolo sono stati trasformati: spesso sfregiati da alberghi, case, palazzi o feriti gravemente da porti e industrie. L’Ispra ha calcolato che a causa della costruzione di nuove strutture artificiali negli ultimi 20 anni sono stati persi 5 chilometri di costa naturale ogni anno: una misura che corrisponde all’intero litorale di una località balneare come Fregene. In realtà, anche la spiaggia di Fregene è stata colpita dall’erosione: tanto che nel 2018 era quasi scomparsa, e paradossalmente era successo a causa della costruzione di un’opera a Focene per contrastare la dissoluzione degli arenili di zona.
Qual è lo stato delle nostre coste? Innanzitutto, vale la pena ricordare che con i suoi circa 8mila chilometri il nostro litorale è il quattordicesimo più lungo del mondo e il quinto più lungo in Europa. E che a causa della conformazione così unica dello Stivale, l’Italia detiene circa il 40% di tutte le coste balneabili d’Europa. Oggi le nostre coste sono monitorate e oggetto di studi. Uno dei più recenti è del WWF, dal titolo eloquente: 'Dossier Coste - Il profilo fragile d’Italia'. All’interno si scopre che solo il 23% dei tratti lineari di costa più lunghi di 5 chilometri in Italia, isole comprese, «possono essere considerati con un buon grado di naturalità». Che cos’è successo al restante 80%? Un impatto antropico massiccio: le nostre attività hanno seriamente compromesso la sussistenza e la salubrità di gran parte dei lembi di confine marittimo della penisola.
Questo riguarda anche i nostri arenili, lunghi complessivamente 3.300 chilometri: metà della costa naturale in Italia è costituita da spiagge. Si tratta in genere di arenili lunghi e ampi: il 75% tra questi misura oltre un chilometro. Sessant’anni di grande sviluppo turistico hanno portato a e- spansioni urbanistiche a volte insostenibili: case o hotel vicino (o sopra) le spiagge in molti casi hanno contribuito alla dissoluzione di porzioni di ecosistemi locali. Ovviamente, il turismo è un motore fondamentale a livello micro e macroeconomico per il nostro Paese: per dare una dimensione del settore specifico, nel 2019 i soli stranieri hanno speso circa 6,6 miliardi di euro nelle località balneari in Italia. Il problema sorge quando la crescita dell’impatto turistico diventa asservimento cieco alle speculazioni di mercato. Così abbiamo visto nascere complessi di edifici non troppo lontani dalle spiagge, che hanno contribuito a deforestazione o fenomeni come la rasatura delle dune costiere. Nelle zone retrostanti le spiagge, secondo l’Ispra, ogni anno dune costiere e vegetazione sono sostituite da oltre 10 chilometri di opere antropiche. E tutto questo ha generato la massiccia erosione degli arenili italiani.
In particolare, il WWF descrive come la manomissione dei fiumi e la demolizione delle dune costiere abbia ridotto e rimosso l’apporto di materiale per la formazione delle spiagge. Così, solo tra il 2006 e il 2019, 841 chilometri di costa italiana sono stati colpiti dall’erosione. La buona notizia è che le attività di ripascimento degli arenili ha portato ad un avanzamento delle spiagge: oggi abbiamo percentualmente più tratti litorali in avanzamento (28%) di quelli in arretramento (25%). La cattiva è che il saldo tra questi è negativo: in sintesi tra il 2006 e il 2019 abbiamo comunque perso complessivamente 1,5 chilometri di spiagge. In ogni caso, agire prontamente e in modo efficace per tutelare i nostri litorali e gli habitat marini funziona. Quello del- l’erosione delle coste è un problema gravissimo, ma pesanti sono anche gli effetti complessivi degli impianti industriali costruiti sulle nostre coste che hanno alterato la composizione di fauna e flora locali, e alterato sistemi economici locali basati sulle attività marittime. Privando l’anima culturale di un luogo in cambio di una promessa di benessere. E lasciando spesso in eredità eco-mostri vuoti, più che posti di lavoro. Il 13% della linea di costa italiana è occupato da opere artificiali come porti, opere di difesa costiera e di impianti industriali, strutture artificiali a supporto della balneazione. Molti di questi sono strategici e funzionali ma quelli inutili e abbandonati contribuiscono a comporre la costa 'artificializzata' italiana, che negli ultimi 20 anni è aumentata complessivamente di oltre 100 chilometri.
Ai frutti avvelenati di strategie industriali abbandonate, oggi si associano gli effetti del cambiamento climatico, dell’inquinamento da plastica, l’impatto di specie aliene, gli ancoraggi indiscriminati e la pesca eccessiva come fattori negativi che intaccano i nostri ecosistemi marini. Vale la pena soffermarsi su questi aspetti: la vita di fauna e flora marittima non è solo importante di per sé, ma risulta funzionale alla sicurezza delle nostre coste e al settore della pesca. Per quanto riguarda il primo aspet- to, il report del WWF mette in luce tra gli altri il ruolo fondamentale della Posidonia. Questa pianta sottomarina si estende per chilometri: le praterie di Posidonia oceanica hanno un ruolo importantissimo a livello ecosistemico. Attenuano la forza delle onde, mitigano gli impatti delle mareggiate, catturano i sedimenti e contrastano l’erosione. E sono un deposito enorme di Co2. La pesca illegale e quella ricreativa, in particolare quella a strascico sotto-costa, hanno creato danni enormi alla Posidonia, che oggi è in regressione su tutti i fondali del Mediterraneo. Anche le ancore pesanti che arano i fondali possono danneggiare questa pianta e vale la pena ricordare che con oltre dodicimila imbarcazioni l’Italia è seconda solo alla Grecia per numero di pescherecci.
Siamo un Paese anche di marinai e pescatori, e le attività professionali di pesca sono ineludibili: ciò che non lo è sono le pratiche selvagge sviluppate in quest’ultimo mezzo secolo nella cosiddetta pesca ricreativa. Si stima che in Italia siano oltre mezzo milione i pescatori ricreativi da barca, e oltre 230mila pescatori siano subacquei. Secondo alcuni studi nel nord-ovest del Mar Adriatico, ad esempio, le catture ricreative potrebbero ammontare a circa il 30-45% degli sbarchi della piccola pesca locale. Questo fenomeno di svago impoverisce la fauna marittima. Non si parla dell’impatto del pescatore che attende paziente in riva al mare, ma delle pratiche moderne di cattura a strascico. Che si confrontano con un Mediterraneo sempre meno generoso per i tanti fattori di impatto ambientale causati dalle attività antropiche. Agire in modo strategico e sistemico, non parcellizzato ed emergenziale, per il ripascimento delle spiagge e la ricostruzione delle dune costiere. Istituire nuove aree protette e riforestare la posidonia oceanica. Procedere con l’accordo di pescatori e operatori del mare per diffondere la cultura della pesca sostenibile, e pianificare uno sviluppo edilizio ordinato e rispettoso di ambiente ed ecosistemi. Sono solo alcune tra le soluzioni già in atto e la cui applicazione deve crescere per compensare quel saldo negativo che ci ha portato a perdere quasi due chilometri di spiagge negli ultimi 15 anni.