Un attacco particolarmente odioso, che ha colpito la comunità dei cristiani copti proprio nel giorno in cui stavano celebrando la nascita di Cristo. E, purtroppo, tragicamente sanguinoso. È l’ennesimo atto di violenza e di intimidazione contro una delle più importanti comunità cristiane dell’Oriente, parte integrante dell’identità egiziana, ormai da anni oggetto di attacchi crescenti. In Egitto, come in molti altri Paesi d’Africa e d’Asia, a maggioranza islamica o meno (basti pensare alle violenze anti-cristiane che hanno insanguinato l’India). Da troppi anni, la deriva fondamentalista si accanisce contro la presenza minoritaria di altri culti. Come se la pluralità religiosa, e ancor più, la libertà di fede apparisse un qualcosa di intollerabile e non un diritto fondamentale di ogni persona. In Medio Oriente, i cristiani sono le prime vittime di questa violenza. L’obiettivo, in Egitto come in Iraq o in Pakistan – per fare altri esempi – è quello di ridurne la presenza e la visibilità, di recidere il legame che essi hanno con i loro territori d’origine, spingendoli all’emigrazione o alla ghettizzazione in enclave separate. Un legame popolo-terra che dura da duemila anni, e quindi è ben più antico di quello dello stesso islam. Non certo ospiti transitori, come alcuni vorrebbero far credere. Finora le reazioni non sembrano essere state efficaci. Certo, vi sono molte dichiarazioni formali di condanna, in Occidente come nei Paesi in cui queste violenze avvengono. Ma vi è bisogno di più, e talora di parole meno ipocrite. I governi mediorientali reagiscono sempre aumentando temporaneamente le misure di sicurezza verso i principali luoghi di culto dei cristiani o riaffermando il loro impegno a proteggerli. Ma è evidente come si cerchi di 'derubricare' il problema a rancori locali, a vendette personali (che ovviamente possono essere a volte le cause scatenanti), cercando di sminuirne la portata sistemica. Mentre è evidente che i milioni di copti egiziani e tutte le Chiese cristiane affrontano problemi di ogni tipo: dalle minacce dirette alle difficoltà di professare il culto; dalle accuse di fare proselitismo – attività che alcuni Stati musulmani puniscono con grande severità – alla scarsa rappresentanza a livello politico e amministrativo. Fino agli ostacoli per ottenere giustizia e vedere riconosciute le proprie ragioni. Sono le conseguenze della politica adottata dalla leadership del Cairo, che ha rapporti conflittuali con i movimenti fondamentalisti e cerca di non acuirli apparendo troppo attenta ai copti. Ma l’Egitto è anche un Paese che da decenni gode di enormi aiuti economici da parte dell’Occidente, e dell’Unione Europea in particolare. Un Paese amico, difeso sempre, talora con perfino troppa indulgenza. L’Unione Europea ha individuato nella difesa delle minoranze (etniche, religiose, culturali) uno dei pilastri della propria azione. E il problema di come tradurre questo concetto nella pratica politica e nel vissuto quotidiano deve entrare nelle agende dei vari consessi promossi, e finanziati, da Bruxelles. Ad esempio, ponendo il problema della libertà di religione fra i temi principali di dibattito dell’Unione per il Mediterraneo, il programma che ha sostituito il deludente Partnenariato Euro-Mediterraneo del 1995. E quindi sollevare le questioni del diritto a cambiare credo – argomento quasi tabù nella sponda sud del Mediterraneo, dato che la sharia punisce con la morte tanto ' l’apostata' quanto chi lo induce alla conversione – della tutela dei figli di coppie 'miste' per fede, del modo in cui portare nelle scuole i concetti di tolleranza e rispetto quali valori e non mere concessioni... Insomma, ben più di qualche poliziotto in più nei giorni successivi alla strage. È tempo che alle parole di condanna facciano seguito programmi concreti di lungo periodo.