Opinioni

Il compleanno. I 65 anni di Barbie e perché aiuta ancora tutte le bambine

Nicoletta Martinelli venerdì 8 marzo 2024

Avendo passato ben oltre mezzo secolo preoccupandosi solo di abbinare il colore delle scarpe a quello del cappello, per Barbara Millicent Roberts sarà difficile scrollarsi di dosso l’immagine frivola della bambolina, dell’oca giuliva con poco cervello sotto la chioma biondo platino. Nata a Willows, in Wisconsin, la signorina Roberts festeggia il 9 marzo i 65 anni: la sua prima apparizione in pubblico risale al 1959, quando si presentò all'American Toy Fair di New York in costume da bagno zebrato, occhiali da sole, orecchini e capelli raccolti in una coda. Da allora, il suo successo è stato inarrestabile, eccessivo come lei. Talmente esagerato da aver stimolato innumerevoli ricerche sociologiche e di costume, mirate a spiegare quello che era ed è un fenomeno planetario: Barbie. Secondo Mattel, che la produce, ne vengono venduti tre esemplari al secondo. Eppure, la sua vita improntata a una sgargiante tonalità di fucsia non è stata sempre rosea: a turno, l’hanno additata come pessimo esempio molte categorie di professionisti, a cominciare dai pediatri, perché con quel vitino da vespa, le gambe magre e le braccine senza un muscolo sembra proporre l'anoressia come stile. Le associazioni dei genitori si infuriarono quando sulla sua pelle nivea comparvero i tatuaggi, mentre gli ambientalisti la accusarono di essere una minaccia per la foresta pluviale: troppa cellulosa negli imballaggi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo: i detrattori della biondina sono cambiati con il cambiare dei tempi e delle convinzioni.

Ma, svampita finché si vuole, Barbie ha saputo modellarsi intorno ai cambiamenti della società, intercettare esigenze e solleticare ambizioni: è stata sulla Luna quattro anni prima della storica missione americana (la versione in tuta da astronauta risale al 1965) e ha corso sei volte per la carica di presidente degli Stati Uniti, ha svolto oltre 150 lavori e professioni, parla 50 lingue, ha viaggiato per il mondo in lungo e in largo in auto, in camper e in catamarano. Sa persino guidare un drone. E non c’è aspetto del politically correct che le sia sfuggito, dall’appartenenza etnica alla disabilità: c’è una versione per ogni occorrenza. Potevano i suoi 29 centimetri e mezzo di forme perfette e la boccuccia a cuore non diventare un bersaglio facile per le femministe? Certo che no, perché – dicevano – maniaca dell’aspetto e appassionata di frivolezze, superficiale e vanesia, non aiuta le bambine ad avere una corretta immagine di sé. Invece no: prima di Barbie, le bambine avevano a disposizione solo bambolotti neonati, da accudire, a cui cambiare pannolini e preparare il biberon: giocavano a fare la mamma, fingendo di essere grandi. Negli anni Cinquanta, quando è nata, il ruolo delle donne era ancora prevalentemente a casa, mogli, madri e casalinghe. Con Barbie tutto è cambiato: il suo motto è stato fin da subito “I can be...”, “io posso essere...”, un invito alle bambine di tutto il mondo a non aver paura di puntare in alto e impegnarsi per diventare, un giorno, intelligenti, sicure di sé, indipendenti, di buon umore e di successo. E, perché no, anche eleganti, se ne hanno voglia. Insomma: qualunque cosa sognino di essere. Meglio se con un pizzico di rosa.