Partiamo dallo spazio pur risicato concesso al dialogo: «Ovviamente siamo aperti a tutti i suggerimenti migliorativi»,
assicura Pier Carlo Padoan ad "Avvenire" in merito al decreto che intende trasformare dieci grandi Banche popolari in società per azioni. Scelta per la quale il ministro dell’Economia rivendica la totale autonomia del governo italiano, pur riferendosi a un «terreno di gioco» internazionale e in particolare europeo che sta cambiando con velocità impressionante e richiede perciò un intervento legislativo d’urgenza. Ci sono dunque margini perché il Parlamento ascolti anzitutto la proposta di auto-riforma che illustrerà giovedì prossimo il presidente di Assopopolari, Ettore Caselli. E poi si esprima al meglio per rendere il decreto meno somigliante a un provvedimento d’impronta dirigistica – per restare sul «terreno di gioco»: un intervento a gamba tesa – che si prefigge di cambiare i connotati alla governance popolare. Per ora fa questo, tirando una riga che pare del tutto arbitraria sul foglio all’altezza degli 8 miliardi di attivo per selezionare così i primi dieci esemplari. Ma la soluzione lascia quanto meno il dubbio che possa rivelarsi solo un test, per passare in un secondo tempo a interventi sotto l’attuale asticella fino a includere le Banche di credito cooperativo.Al fine di rendere il dialogo più fruttuoso, proviamo a mettere in fila alcune evidenze emerse nel dibattito delle ultime settimane. Anzitutto non è il modello di governance – il voto capitario che caratterizza le cooperative oppure quello delle Spa – a far sì che una banca sia più efficiente e nelle condizioni di crescere sotto il profilo patrimoniale, delle dimensioni o della capacità di erogare credito. In entrambi i casi a fare la differenza è infatti il buon uso o meno della propria specificità. Fra l’altro, già oggi i soci delle banche a statuto cooperativo sono in condizioni di decidere liberamente se approvare un’operazione straordinaria e trasformarsi in Spa. Lo hanno fatto ad esempio Banca agricola mantovana e Antonveneta incontrando sorti diverse.Nel contesto dell’ultima grande crisi, poi, le banche cooperative hanno assicurato credito a famiglie piccole e medie imprese in maniera rilevante rispetto al sistema: dall’inizio del cosiddetto
credit crunch nel 2011 sino alla fine del 2013 le Popolari – incluse le "trasformande" – hanno aumentato i prestiti del 15,4% mentre le Spa, piccole o grandi, li hanno ridotti in media del 4,9%. Le banche popolari hanno avuto quindi una funzione anti-ciclica, attenuando gli effetti della terribile stretta creditizia complessiva che ha ben altre ragioni, di natura strutturale, non certo legate alla stazza degli istituti. Per inciso: un calo dei prestiti (-3,1%) è stato registrato nello stesso periodo anche dalle grandi banche estere presenti nel nostro Paese, quelle che grazie al decreto potrebbero entrare nel capitale delle nuove Popolari contendibili.In terzo luogo, la pluralità dei modelli di governance e la biodiversità del credito garantiscono maggior stabilità e robustezza al sistema bancario. In Germania nessuno si sogna di cambiare un assetto in cui la maggioranza del mercato è tuttora rappresentata da banche soggette al diritto pubblico e dalle casse di risparmio soggette alla legislazione delle cooperative. I tedeschi hanno per altro sperimentato sulla loro pelle, dovendo salvare colossi del calibro di Commerzbank, come alcuni intermediari siano più vulnerabili di altri alle bolle e all’assunzione dei rischi perché orientati in prime istanza a cercare profitti di breve termine. L’obiettivo delle banche cooperative include invece la creazione di condizioni migliori per il credito e l’occupazione nei territori serviti. Senza contare – e non è certo un caso – che proprio alcune Popolari sono diventate uno straordinario laboratorio di finanza sociale con la creazione di strumenti innovativi e dal grande impatto comunitario quali i
social bond. Questa, sì, è una ricchezza da tutelare per chi crede davvero nell’economia civile.Quanto alla solidità patrimoniale, le banche popolari risultano per le autorità di vigilanza europee di sana e robusta costituzione, avendo superato tanto gli esami del sangue con l’Asset quality review, quanto l’elettrocardiogramma sotto sforzo rappresentato dagli stress test. Veniamo infine alla questione di una riforma attesa, è vero, da più di vent’anni. Quanto a lentezza e manifesta resistenza al cambiamento, il mondo popolare non è certo esente da colpe. E c’è pure chi ha approfittato – come è accaduto a onor del vero anche in grandi Spa quotate – del legame con il territorio e, nello specifico, del voto capitario per costruire "signorie locali" che male hanno fatto sia alle banche stesse, sia ai clienti serviti. Ma le fattispecie sono limitate. E potrebbe rivelarsi un errore strategico confondere la patologia con la fisiologia, punendo la governance cooperativa e non chi ne ha abusato. Perché allora non accogliere la sospirata accelerazione delle Popolari per un’auto-riforma finalmente a portata di mano? Perché non puntare sulla volontà di un sistema speciale e utile di riformarsi senza snaturarsi invece che su un decreto? Un’antica saggezza ci ricorda: "Se vuoi un anno di prosperità semina il grano, se ne vuoi dieci pianta gli alberi, se ne vuoi cento fai crescere le persone". Magari usando il pungolo, ma non facendo una guerra autolesionista (anche sul piano del consenso) ai territori dove le persone vivono e e lavorano e che le istituzioni (anche bancarie) devono saper servire.