Nel tempo, abbiamo purtroppo fatto una certa abitudine alla strage di bambini in Africa. Bambini soldato mandati a massacrare e farsi massacrare, dall’Uganda all’Etiopia, dal Congo alla Liberia, dalla Sierra Leone al Sudan. Bambini decimati dalle carestie, a volte scientemente provocate o sfruttate a fini politici, come l’ultima in Corno d’Africa da parte degli shabaab della Somalia. Nessuno, però, era ancora arrivato al livello della perfidia elevata a filosofia di morte come Boko Haram, la setta islamista nata all’inizio degli anni Duemila nel Nord della Nigeria, al confine con Niger e Ciad. Boko Haram in lingua hausa (quella di un popolo di circa 30 milioni di persone sparso appunto tra Niger e Nigeria) significa «l’educazione occidentale è peccato», slogan che in questo caso è un concreto programma di azione. La setta, infatti, cominciò a operare nella città di Maiduguri costruendo una moschea dove predicava Ustaz Mohammed Yusuf, il fondatore del gruppo morto nel 2009 mentre tentava di evadere di prigione, e una scuola di stampo rigorosamente islamico per accogliere e istruire i figli delle famiglie povere.Con le loro incursioni, però, i miliziani di Boko Haram hanno mostrato in modo assai chiaro cosa intendano per istruzione ed educazione. Prima hanno cominciato a colpire le scuole, soprattutto quelle cristiane, minate con le bombe o attaccate con i kamikaze. L’ultima strage di una lunga serie è del settembre scorso, almeno cinquanta studenti falciati in un istituto agrario nello Stato di Yobe. Poi hanno rapito le studentesse, per farle schiave, convertirle a forza o sfruttarle per il riscatto: 219 ragazze sequestrate nell’aprile scorso a Chibok, portate nelle foreste al confine con il Niger, vendute come bestie, maritate a forza, alcune liberate, altre scampate in modo quasi miracoloso. Infine, e siamo alla cronaca di questi giorni, hanno cominciato a usare le bambine come bombe umane, caricandole di esplosivo e facendole saltare a distanza nei mercati, tra la gente. È la stessa ideologia dei taleban che in Pakistan spararono a Malala, la ragazza premio Nobel per la pace nel 2014, perché voleva andare a scuola. Ma, se possibile, resa ancora più nera e disperata. Colpendo Malala, infatti, infatti, i taleban volevano spaventare le famiglie, costringerle a tenere le figlie in casa, nell’ottica di un modello di vita oscurantista e fanatico. I miliziani di Boko Haram vanno oltre: scegliendo di sacrificare le future donne e di tramutarle in ordigni di morte, negano il principio stesso per cui esiste l’istruzione, qualunque istruzione, anche quella islamica. Istruirsi, infatti, vuol dire prepararsi alla vita, dotarsi degli strumenti più adatti a valorizzare le proprie potenzialità. Serve a passare da progetto a realtà, da ragazzo appunto a uomo o donna. Ma quella di Boko Haram è una cultura non di vita ma di morte: perché uccide vite già fiorite, certo, ma anche perché uccide vite che devono ancora sbocciare. Le bambine possono essere sacrificate, gli uomini devono fare i padroni, tutto deve restare congelato in una dimensione in cui le relazioni conoscono i soli modi del comando e della violenza.La setta, come ormai sappiamo, punta a costituire tra Nigeria e Niger una replica dello pseudo-califfato sorto tra Iraq e Siria; approfitta delle enormi disuguaglianze sociali della Nigeria, dove l’1% della popolazione gode del 75% della ricchezza nazionale; vuole di certo mettere le mani sui proventi del petrolio. Ma quella sua mortifera visione del mondo è destinata quasi per natura a scontrarsi con quella cristiana, nel Paese rappresentata da oltre il 48% della popolazione, che è invece un’idea di vita e libertà. Anche #bringbackourgirls, lo slogan usato dopo il rapimento delle studentesse, deve quindi diventare un "marchio" sulla nostra consapevolezza.