Famiglie e fisco. Badanti sfruttate o «in nero». L'emersione non viene favorita
Un'anziana con la badante (Boato)
False cooperative, agenzie di somministrazione che operano senza autorizzazione, partite Iva aperte all’insaputa delle stesse lavoratrici, fino a stranieri che si improvvisano “ufficio di collocamento” per i connazionali, al di fuori di ogni regola. Le forme dello sfruttamento e del lavoro irregolare nel settore domestico si stanno diversificando ed evolvendo rispetto alla classica “attività in nero” che pure resiste. E vedono sempre più spesso le famiglie non più tanto o solo come le prime beneficiarie dei “vantaggi” illeciti del sommerso, ma vittime esse stesse di nuove modalità di caporalato e insieme della scarsa lungimiranza della classe politica incapace di dare una risposta sul piano fiscale a uno dei nodi più intricati del welfare moderno: l’invecchiamento progressivo.
L’ultimo caso di cronaca è dell’altro ieri con l’arresto di due donne, originarie dell’Est Europa, e misure restrittive per altri sette collaboratori di una falsa onlus che reclutava badanti straniere, sequestrando loro il passaporto e facendole lavorare, in maniera irregolare, presso alcune famiglie a Milano, Varese e Torino. Ma non è un episodio isolato. La scorsa estate, ad esempio, la Cgil di Bergamo aveva denunciato il caso di una (falsa) cooperativa che piazzava personale straniero presso le famiglie, inducendo le lavoratrici ad aprire una partita Iva per essere retribuite. Il risultato era che alla cooperativa le ignare famiglie versavano ogni mese dai 1.200 ai 1.500 euro, mentre alle badanti venivano “girati” solo 900 euro mensili sui quali loro dovevano poi togliere anche le imposte. A Modena, invece, agiva un’agenzia polacca, non autorizzata ad operare in Italia secondo quanto accertato dalla Nidil-Cgil, che tramite un giro di cooperative create appositamente collocava persone straniere presso le famiglie con anziani non autosufficienti: alle lavoratrici arrivavano 800 euro netti, i datori di lavoro pagavano quasi il doppio. «Il lavoro nero è molto diffuso e a volte – spiega Giamaica Puntillo, segretaria nazionale di Acli Colf – sono le stesse badanti a riunirsi in cooperative improvvisate per garantire lavoro alle connazionali che arrivano in Italia e finiscono per non ottemperare correttamente a tutte le norme e soprattutto a non rispettare i minimi previsti dal contratto nazionale per le retribuzioni». Al di là delle vere e proprie truffe, infatti, occorre fare i conti in ogni caso con le scarse disponibilità finanziarie e le difficoltà della stragrande maggioranza delle famiglie. «Dopo aver seguito un corso di formazione – racconta Roberta, romana rimasta da tempo senza lavoro e desiderosa di trovare un’occupazione regolare – ho risposto a moltissime inserzioni che chiedevano una badante nella capitale. Oltre a dover scansare Agenzie mascherate e finte cooperative, le offerte di privati che mi sono state fatte erano tutte 'in nero' o 'in grigio' con paghe che variavano da 500 a 700 euro al mese per un servizio praticamente di 24 ore, senza rispetto delle norme sui riposi giornalieri né tanto meno per le 36 ore previste come fermo lavorativo nella settimana. E questo per assistere persone che spesso hanno problemi di Demenza senile, Parkinson o Alzheimer».
Il settore, assieme a quello del lavoro domestico e della cura dei bambini, è caratterizzato infatti da un ampio ricorso al nero. Secondo la ricerca “Viaggio nel lavoro di cura”, promossa nel 2017 dalle Acli Colf, tra le badanti coinvolte in mansioni di piccola assistenza medica e para infermieristica (cosa che tra l’altro sarebbe vietata e presenta non pochi rischi), il 33,9% lavora “in nero” e le retribuzioni medie oscillano tra i 1.000 euro mensili di Bologna e i 550 di Benevento. I dati ufficiali dell’Inps contano 886.125 rapporti regolari. Fra questi il 76% riguarda lavoratori di origine straniera, la metà proveniente dall’Est. Le italiane (e gli italiani) sono invece circa 213mila, con un aumento significativo negli ultimi anni. Secondo Assindatcolf, l’associazione che riunisce i datori di lavoro domestico, in realtà nel settore operano circa 2 milioni di persone, di cui appunto 1,2 milioni (il 60%) totalmente sconosciuti a previdenza e fisco. Tanto da creare, calcola l’associazione, un “buco” di 3,1 miliardi di euro nelle casse dello Stato tra mancati e parziali versamenti di Irpef e di contributi. Il comparto, dunque, resta il regno dell’attività 'in nero' o quantomeno 'in grigio', con la denuncia di meno ore di quelle effettivamente prestate dai lavoratori. Un’evasione parziale favorita dal convergente interesse delle due parti: le famiglie per risparmiare sui contributi e i lavoratori sulle tasse. Spesso la scelta di un “male minore”, una sorta di “evasione di necessità” dovuta ai costi tutt’altro che indifferenti che gravano sui figli per la cura dei genitori anziani.
In realtà, per far emergere almeno una parte del sommerso una via ci sarebbe: permettere alle famiglie di dedurre dalle dichiarazioni dei redditi l’intero costo che sopportano per stipendi e contributi delle badanti. Le famiglie, infatti, provvedendo in proprio alla cura degli anziani fanno risparmiare il sistema sanitario e dovrebbero riceverne in cambio un riconoscimento. Oggi, invece, questo è decisamente limitato sul piano fiscale: per coloro che assumono una badante, infatti, è prevista la deducibilità dei contributi e una detraibilità degli stipendi decrescente in base al reddito e che si annulla a quota 40mila euro con un massimo di 399 euro. In totale, si resta ben al di sotto dei 1.000 euro l’anno. Decisamente poco, se si considera che i costi totali per una badante con regolare contratto superano i 15mila euro l’anno. Finora, però, la richiesta di aumentare la deducibilità dei costi per l’assistenza è sempre stata respinta, nonostante i benefici per le casse dello Stato, derivanti dall’emersione dal nero, sarebbero certamente superiori alle perdite di gettito dalle famiglie.
Anche l’attuale governo ha insistito nell’errore. Persino quando si tratta di contrastare la povertà e favorire l’occupazione. Nella conversione in legge del decreto sul Reddito di cittadinanza, infatti, è stato respinto un emendamento (a firma M5s) che avrebbe incluso le famiglie tra i datori di lavoro che beneficeranno di un bonus se assumono un disoccupato, titolare di sussidio. Alle imprese che lo faranno spetterà, come sgravio contributivo, la differenza tra le 18 mensilità di Rdc previste e quelle già incassate dal disoccupato, fino a un massimo di 780 euro mensili. L’Assindatcolf aveva chiesto ufficialmente in un’audizione in Senato l’applicazione anche alle famiglie di quanto previsto dall’articolo 8 del decreto sul Rdc. E aveva calcolato che il beneficio sarebbe stato di «180 euro al mese nel caso di domestici assunti a tempo pieno, ovvero per 40 ore a settimana, mentre nel caso di una badante convivente, per 54 ore settimanali, si sarebbe arrivati a circa 250 euro». Molto di meno, dunque, del tetto massimo fissato per le imprese. «Lo Stato quindi – fa notare il vicepresidente di Assindatcolf Andrea Zini – avrebbe risparmiato almeno 500 euro al mese per ogni disoccupato che fosse stato assunto dalle famiglie, uscendo così dal programma del Reddito di cittadinanza». E invece, non solo la proposta è stata respinta per una presunta e ingiustificata mancanza di coperture non venendo incontro ai bisogni delle famiglie. Ma, al tempo stesso, non si è favorita l’assunzione di disoccupati in un comparto, quello dei lavoratori domestici, dove non manca l’offerta.
Con il paradosso che, in tal modo, legislatori e governo finiscono per lanciare messaggi decisamente negativi: meglio disoccupati con il sussidio che badanti, meglio il 'nero' di un’emersione incentivata.