La pace e la «cultura della cura». Avere a cuore tutta la vita
È tempo di coltivare il principio della cura «per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente». Così scrive papa Francesco nel testo "La cultura della cura come percorso di pace", redatto in occasione della cinquantaquattresima Giornata Mondiale per la Pace che si è celebrata ieri, 1 gennaio 2021.
La cura è la necessità prima della vita umana. Il bisogno primo di ricevere cura e di dare cura accomuna ogni essere umano. Tutti e tutte, infatti, siamo fragili e vulnerabili, bisognosi di qualcosa che solo l’altro può dare: bisognosi di protezione e di nutrimento per il corpo e per l’anima. E proprio questa inaggirabile necessità, che rivela la debolezza della condizione umana, rappresenta la condizione per far esperienza del senso autentico dell’esserci, perché nell’avere cura – per sé, per l’altro, per le istituzioni che strutturano il mondo umano, per la natura che costituisce il tessuto della vita – si risponde alla chiamata propriamente umana ad avere a cuore la vita. Avere cura è prendersi a cuore la vita: procurare quanto è necessario per nutrirla e conservarla, per fare fiorire le potenzialità in cui si realizza l’umanità dell’esserci, per ripararla nei momenti difficili quando il dolore del corpo o dell’anima rende difficile il nostro cammino nel tempo.
Prendersi a cuore la vita significa assumere la responsabilità di concorrere con i gesti e con le parole alla costruzione di una buona qualità della vita per tutti. Riferimento essenziale della pratica della cura è la ricerca di ciò che fa bene. E proprio perché costituisce il riferimento essenziale alla grammatica della cura il concetto di "bene" va riportato al centro della riflessione culturale, per liberarlo dalle interpretazioni individualistiche e consumistiche, e riempirlo del suo senso proprio che è quello di essere "comune". Solo quando la politica quotidiana sarà ispirata dalla ricerca del bene comune non ci saranno più primi e ultimi, non ci saranno più scarti.
«Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune» (6). Il trovarci a fare fronte ai problemi provocati dalla pandemia di Covid-19 mostra in tutta la sua evidenza la necessità di pensare in termini di comunità, poiché non c’è possibilità di superare questo momento difficile se non assumendo come regola prima quella di agire per il bene comune. L’attuazione di una cultura della cura richiede innanzitutto di rendere disponibile le cure primarie a tutti attrezzando il sistema sanitario di quanto è indispensabile, ma allo stesso tempo di prevedere un sistema di cura per gli operatori sanitari che vanno sostenuti non solo in termini di risorse materiali e organizzative ma anche formative e spirituali. Lo stesso vale per il mondo della scuola, che deve essere messo in grado di offrire la migliore forma di "cura educativa" per tutti, obiettivo questo che richiede non solo nuove risorse, materiali o digitali che siano, ma azioni culturali adatte a supportare i docenti nella costruzione di scenari educativi capaci di raggiungere ogni studente nel migliore modo possibile, superando la riduzione dell’educazione a mera erogazione di informazioni per recuperare il suo significato primario nel principio della coltivazione dell’anima.
Nessuno sia lasciato senza cura, sia essa del corpo o della mente. Non solo il "settimo anno sabbatico", ma ogni momento del tempo sia quello in cui (cfr. Dt 15,4) si ha cura «dei più fragili, offrendo loro una nuova prospettiva di vita, così che non vi sia alcun bisognoso nel popolo» (3).
Molti, in Italia e nel mondo, in questo tempo difficile hanno perso il lavoro, molti si trovano con risorse inadeguate a garantire il necessario alla propria famiglia; perché nessuno sia lasciato solo e trovi quanto è necessario per riprendere il ritmo del cammino della vita è urgente una solidarietà quanto più immediata e diffusa, quella che trova la sua più intensa espressione nella parabola del buon samaritano: non occuparsi solo del proprio viaggio esistenziale, ma fermarsi e prestare attenzione all’altro, capire ciò di cui ha bisogno e agire con prontezza. Ma è necessaria anche una politica nuova, che assume come riferimento primo la grammatica della cura, per ridisegnare le regole della vita economica e sociale. A noi non è data la facoltà divina di moltiplicare pane e pesci, ma è data la capacità e la responsabilità di realizzare una giustizia economica che rimetta al centro il nucleo vitale del messaggio cristiano.
La politica della cura ha bisogno del contributo di tutti, per questo papa Francesco invita tutti a diventare profeti e testimoni della «cultura della cura» (7), perché solo se ognuno saprà «convertire il cuore e cambiare la mentalità per cercare veramente la pace nella solidarietà e nella fraternità » sarà possibile ridisegnare la qualità della vita. Convertire il cuore e rimodulare il modo di pensare, dare forma a gesti pienamente umani nell’incontro con l’altro significa fare proprio il nucleo etico della cura: sentire e assumere la propria responsabilità per la vita, essere capaci di rispetto profondo per ogni altra persona nel suo inviolabile valore, essere testimoni di carità, cioè di quella logica del dono che è la misura prima della pratica cura.