Tecnologie. Auto elettriche «made in China», un primato che si può insidiare
Linea produttiva di auto elettriche in una fabbrica del Beijing Automotive Group a Pechino
La Cina è davvero vicina. Arriva in automobile, settore che ha gradualmente monopolizzato grazie a una serie di ragioni che l’Europa sta favorendo con la svolta verso la mobilità elettrica, dove i produttori cinesi sono protagonisti e primi fornitori mondiali. Che ciò rappresenti un reale pericolo per la competitività, oppure un’opportunità per il mercato e quindi per i consumatori (o anche entrambe le cose insieme), questo è tutto da stabilire.
Il tema si presta ad analisi complesse, partendo su basi anche paradossali, soprattutto a livello ambientale, aspetto sempre legato a filo doppio a qualunque questione riguardante l’automobile e la mobilità. Secondo i dati della International Energy Agency (Iea) nel biennio 2020-2021 la Cina – responsabile da sola del 33% delle emissioni di CO2 mondiali – le ha aumentate di 750 milioni di tonnellate, annullando gli sforzi del resto del pianeta che le ha abbattute di 570 milioni. Ma l’Europa che giustamente si autoflagella in difesa dell’ambiente, è beffardamente “vittima” di quanto accade anche a livello produttivo in campo automotive, uno dei settori sotto accusa per le conseguenze sulla qualità dell’aria che la mobilità su ruota comporta.
È un dato consolidato che il Vecchio Continente non riesca a tenere il passo con la Cina, primo produttore mondiale di autoveicoli, che nel 2021 ha fatto uscire dalle sue fabbriche oltre 26 milioni di vetture, con un distacco netto dal secondo e dal terzo, ovvero gli Stati Uniti (9.167.214) e il Giappone (7.846.955). Una crescita spaventosa, iniziata quando la Cina ha goduto della dislocazione della produzione di tutti i costruttori occidentali, arricchendosi e creando fabbriche high tech capaci di volumi di produzione impensabili alle nostre latitudini, e che oggi la portano ad avere quasi un terzo di tutta la produzione mondiale. Questo perché la Repubblica di Xi Jinping non solo assembla le auto dei costruttori locali, e quelle dei marchi acquistati dai colossi cinesi (Volvo, Lotus, Polestar, Smart, Aston Martin, MG), ma anche quelle dei produttori occidentali che hanno aperto là le loro fabbriche. Le ragioni sono molteplici: il basso costo della manodopera è in realtà marginale, anche perché non più così basso come in passato. Il vero vantaggio è l’assenza di costi di trasporto delle merci, la vicinanza ai fornitori, soprattutto a quelli di semiconduttori, e anche un forte know how per quanto riguarda le auto elettriche, carente soprattutto in Germania che ha perso così il suo storico primato.
Secondo Dino Brancale, amministratore delegato di Avl Italia, azienda torinese che si occupa di innovazione tecnologica nei trasporti, sorprendersi è assurdo: « Pechino pianifica da più di 20 anni la sua strategia e gli investimenti in campo automotive, e con grande intelligenza – ha spiegato nel convegno ForumAutomotive di qualche giorno fa a Milano –. Prima ha invitato gli europei a portare tecnologia in Cina, poi ci hanno detto che dovevamo creare dei brand là per svilupparla. Ora stanno venendo qui in Europa a investire, e ad acquisire anche le migliori professionalità del settore. Ma non c’è solo la Cina: gli Emirati Arabi stanno investendo centinaia di miliardi nell’auto elettrica. Il problema dunque non sono loro, il problema siamo noi. A Pechino l’energia costa 0,089 euro a Kw/h, in Germania 0,319, in Italia 0,35: dov’è la competitività industriale? Chi vuole investire deve andare là per forza. La transizione energetica è indispensabile, ma occorre raggiungerla imponendo regole uguali per tutti».
Al recente Salone di Parigi, Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, era stato chiaro nel suggerire all’Unione Europea di seguire la stessa strada intrapresa dagli Stati Uniti, dove l’amministrazione Biden ha varato apposite politiche di promozione delle auto elettriche vincolando l’erogazione degli incentivi all’origine statunitense dei modelli, sia per quanto riguarda la produzione sia per l’estrazione delle materie prime. L’invito dell’ad di Stellantis sembra sia stato accolto dal presidente francese Macron, tra i capi di Stato europei più attivi nello spingere la riconversione dell’apparato industriale del suo Paese verso la mobilità alla spina. Macron infatti sta cercando di ottenere il sostegno del cancelliere tedesco Olaf Scholz per un nuovo piano che supporti gli sforzi delle Case europee e le aiuti a competere contro i rivali statunitensi e cinesi.
Ma quella del protezionismo, a detta di molti analisti, sembra una soluzione inadeguata. A livello di barriere doganali, se i brand cinesi oggi pagano il 10% per esportare auto nel Vecchio Continente, le Case occidentali devono far fronte a tariffe comprese tra il 15% e il 25% per vendere laggiù auto costruite in Europa. Praticando prezzi più accessibili, i marchi di Pechino possono conquistare quote di mercato crescenti, specie nel settore delle auto elettriche (ora, secondo un rapporto di Transport & Enviroment, sono al 5%). Quel che è certo è che “Made in China”, applicato ai prodotti automobilistici, oggi non è più un dispregiativo per la qualità sempre crescente delle vetture e del loro design. Auto che sono “forti” anche dal punto di vista distributivo dato che la crisi dei chip le ha toccate solo marginalmente, e oggi in Italia marchi di fabbricazione cinese come DR e MG hanno moltiplicato le vendite grazie a una disponibilità di prodotto sconosciuta agli altri brand.
Secondo Marco Saltalamacchia, vicepresidente e Ceo del Gruppo Koelliker, storico importatore in Italia di vetture orientali, «l’auto è un business globale, ed è fuori dal gioco chi globale non lo diventa. Oggi l’americana Tesla che è il costruttore di riferimento per molti, ha un modello di sviluppo che necessita e prevede fabbriche a Berlino come a Shanghai, oltre che negli Usa. Ci sono molti falsi miti da sfatare. La Cina non è il demonio: ha salvato l’industria più importante dell’auto, quella tedesca, durante la crisi della Lehman Brothers, diventando il mercato più redditizio per la Germania. Le barriere doganali ci sono e ci sono sempre state, ma la storia ha dimostrato che non aiutano a diventare globali. La Cina ha un mercato interno enorme ma il prodotto che arriva da là non è a basso costo come fu inizialmente quello coreano: è piuttosto ad alta tecnologia, pensato per la middle-class cinese che può permetterselo, vuole prodotti di casa (tra i primi 10 marchi venduti a Pechino, quelli locali dominano). La Cina ha deciso la svolta elettrica nel 2009 quando i vertici del partito comunista vararono il piano quinquennale per il quale l’auto a batteria doveva diventare una delle prime tre priorità industriali del Paese. L’Europa, che storicamente esportava fuori dai suoi confini il 60% di quanto produceva, ora che legislazione e tempi hanno svoltato sull’elettrico, è in ritardo e in chiaro affanno. La vera sfida è fare in modo che l’industria auto europea che rappresenta tra il 10 e il 15% del suo Pil recuperi le posizioni sapendo che il futuro è inevitabilmente elettrico. Non fasciamoci la testa, però. La Cina ha un vantaggio enorme su integrazione dei sistemi e software ma è avanti di qualche anno, non di secoli. Le auto, con qualunque tecnologia, siamo sempre stati capaci di farle anche noi europei, e recupereremo».
Ciò che potrebbe “salvare” il nostro sistema, al contrario di quanto si possa pensare, alla fine potrebbe essere proprio l’auto elettrica. Anche in Italia, dove – per quanto i numeri di vendita siano ancora irrisori – la produzione di auto 100% a batteria sta aumentando. La Fiat 500 elettrica, costruita interamente a Mirafiori, è la seconda EV più venduta in Europa e la prima in Italia, con numeri e volumi quasi paragonabili a quelli di un’auto termica. Ma in Italia si produrrà anche la nuova Maserati Folgore, versione elettrica della Grecale, così come i furgoni Citroën Jumper, Fiat Ducato e Peugeot Boxer con le relative versioni a batterie. A Termoli, in Mo-lise, Stellantis farà sorgere uno dei suoi impianti destinati alla produzione di celle e moduli di batteria per auto con investimenti per almeno 2 miliardi di euro, mentre in provincia di Torino entro la metà del 2023 partiranno i lavori di ItalVolt, altra gigafactory destinata alla produzione e stoccaggio di batterie al litio con 3.000 dipendenti per ridurre la dipendenza sia dalla Cina sia dagli altri Paesi.