Chi cresce un bambino che ha ricevuto una diagnosi di autismo sperimenta sulla propria pelle e nella propria vita la fatica di dover spiegare al mondo chi è suo figlio e quali bisogni ha. E spesso si sente impotente e solo. A volte addirittura pieno di vergogna. Perché quel figlio, dai comportamenti imprevedibili, dal funzionamento apparentemente antisociale, dalle reazioni esagerate di fronte a rumori e suoni normali per tutti ma non per lui, è un figlio che tutti guardano con occhi increduli, con una certa dose di diffidenza, con l’incapacità di capire perché sta comportandosi in quel modo. Papa Francesco, incontrando ieri centinaia di persone autistiche con le loro famiglie, ha definito questo problema uno «stigma sociale». L’autismo è proprio questo. È qualcosa che conosci solo se nella classe di tua figlio c’è un compagno che ne soffre. Altrimenti ne stai a distanza, non te ne occupi in alcun modo. Così quella fatica relazionale che connota il soggetto autistico diventa una fatica di tutta la sua famiglia, che si trova isolata e non compresa, incapace di trovare una strada per la propria socializzazione e integrazione nella comunità di appartenenza. Iscrivere a scuola un figlio autistico significa spesso dover far comprendere qual è e cos’è il 'suo' autismo e quali sono i bisogni educativi specifici che devono ricevere attenzione. In effetti, si dovrebbe parlare non di autismo, ma di autismi, considerando le numerose e differenti sindromi che sono definite e classificate con la medesima parola. Ci sarebbe bisogno di insegnanti competenti e specializzati e le nostre scuole, in molti casi, ne sono completamente sprovviste. Ci sarebbe bisogno di specialisti capaci di fare diagnosi precoce, cosa che spesso non avviene. Ci sarebbe bisogno di luoghi e strutture capaci di accogliere e valorizzare le molte potenzialità di questi soggetti, una volta terminato il circuito scolastico, invece di lasciare i genitori soli e disperati, incapaci di immaginare quale sarà il destino del proprio figlio, dopo la loro morte. Ci vorrebbe una sensibilità che faccia dire a tutti noi 'Io amo il bambino autistico', la dichiarazione che era scritta sulle magliette indossate da chi ieri ha incontrato il Papa. Una scritta che, nel vuoto istituzionale, politico e assistenziale in cui sono stati lasciati i soggetti autistici e le loro famiglie, rappresenta un’utopia per la maggior parte di noi. Mentre, invece, dovrebbe essere realtà.