L'attentato a Parigi. La nuova ondata del contagio terroristico
Sembra ormai confermato che i due killer dell’attacco a “Charlie Hebdo” siano franco-algerini addestrati in Siria. Reduce da una “formazione” nello Stato islamico era anche Mehdi Nemmouche, l’attentatore della sinagoga di Bruxelles, che nel maggio scorso uccise quattro persone a colpi di kalashnikov.
L’allarme sui foreign fighters, cioè gli stranieri che vanno a combattere per la delirante causa del Califfato, è scattato da tempo. Ma ora si può cominciare a ipotizzare che dal confine siriano-iracheno sia in arrivo la seconda ondata del terrorismo verso l’Occidente, dopo quella alimentata dal “contagio” afghano. Le principali azioni targate al-Qaeda si svolsero infatti nel segno degli hub. Il nucleo dei combattenti che si era formato sotto Osama Benladen in Afghanistan costituiva la struttura portante della Rete, di cui gli hub costituivano i nodi strategici. Erano i grandi reclutatori, gli strateghi e i suggeritori, da Halid Sayh Muhammad (ritenuto la mente dell’11 settembre) ad Hambali (accusato della strage di Bali), da al-Zarqawi (capo delle operazioni in Iraq, eliminato nel 2006) ad al-Muqrin (la guida dell’offensiva in Arabia Saudita, ucciso nel 2005); passando per “Muhammad l’egiziano” (arrestato a Milano come ispiratore dell’eccidio di Madrid), il marocchino Muhammad al-Qirbuzi (cofondatore del Gicm) e il siriano-spagnolo “al-Suri”, sospettato di coinvolgimento sia negli attentanti spagnoli sia in quelli di Londra. Morto Benladen e smantellati i campi di addestramento in Afghanistan (ma non vinti i taleban), il nuovo focolaio dell’epidemia si è acceso con l’Is. Sono coloro che compiono un viaggio nelle zone del Califfato, per combattere o solo addestrarsi all’uso delle armi, a essere i pericolosi “cani sciolti” protagonisti degli assalti recenti e potenziali minacce per il futuro. Ciò suggerirebbe dunque di intensificare il contrasto del Califfato, per smantellarne le “scuole di terrore”. Ed anche, come ha già annunciato il ministro Alfano, di rafforzare la sorveglianza e la repressione del fenomeno dei foreign fighters. Ma è evidente che ciò non basta. Perché chi parte per la Siria ha già una probabilità più alta di trasformarsi in terrorista al suo ritorno. Bisogna quindi agire preventivamente anche nelle nostre città. Si può infatti ritenere che il terrorismo arruoli nuovi adepti usando una propagazione epidemica, nella quale i “reclutatori” (anche quelli virtuali via Web) sfruttano le loro connessioni sociali, culturali e religiose per acquisire altri affiliati alla causa, diffondendo il “contagio”. Tale processo è non deterministico e la possibilità di convincere un individuo a legarsi ad un’organizzazione ha una sua probabilità, che dipende da vari fattori. Oltre alla predisposizione di ciascun soggetto, legata alla sua storia personale, esiste una serie di parametri globali, quali il livello di conflittualità e disagio sociale all’interno della comunità di appartenenza, nonché le condizioni economiche e culturali, e il grado di integrazione della comunità nella società nazionale. Non è difficile intuire che la prevenzione del terrorismo deve partire da queste considerazioni, come una profilassi epidemica deve prima di tutto mirare a innalzare il livello di “igiene e assistenza sanitaria” dell’ambiente considerato.