Quel cuore dell’Africa fatto a pezzi. L'atroce ferita e la piaga aperta
Quanto è avvenuto ieri nei pressi della cittadina congolese di Kanyamahoro è raccapricciante. L’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta, e del loro autista è un fatto terribile. Anzitutto, perché hanno perso la vita persone innocenti che stavano svolgendo il proprio dovere con grande spirito di dedizione e sincero slancio umanitario.
L’ambasciatore Attanasio aveva manifestato in più circostanze, nel corso dei suoi viaggi nell’est della Repubblica Democratica del Congo, grande attenzione e solidarietà nei confronti dei missionari, dei volontari e dei cooperanti che operano in quella parte dell’Africa Subsahariana dimenticata da tutto e da tutti. Eppure, sarebbe davvero fuorviante pensare che l’imboscata tesa ieri da un commando di miliziani, finora non meglio identificati, sia un episodio a sé stante che prescinde dal contesto geopolitico di quella tormentata parte dell’ex Zaire, la provincia del Nord Kivu.
Una terra che da lunghi anni continua a essere bagnata da sangue innocente, per questo raccontata spesso anche da questo giornale e inspiegabilmente e colpevolmente ignorata da gran parte della stampa nazionale e internazionale. Le ragioni che rendono infuocato questo territorio sono fondamentalmente due: la presenza di numerosi formazioni armate che seminano quotidianamente morte e distruzione e la ormai endemica epidemia di ebola che ciclicamente si ripresenta causando pene indicibili ai malati. Si stima che nella regione siano attive circa 160 formazioni ribelli, con un totale di oltre 20mila combattenti.
Basti pensare che nel solo territorio di Beni, dall’ottobre 2013, sono state massacrate oltre 4mila persone. Intanto, come se non bastasse, le autorità sanitarie congolesi stanno tentando di isolare proprio in quell’area un nuovo focolaio del micidiale virus di ebola (che da alcuni mesi sembrava fosse stato debellato e che tra il 2018 e il 2020 ha falciato oltre 2.200 persone).
Ma al di là di queste considerazioni è importante comprendere che il Nord Kivu rappresenta la cartina al tornasole di quanto sta avvenendo in Congo. Come qui è stato più volte documentato e contrariamente a quanto si pensa, non stiamo parlando affatto di un Paese povero, semmai di una terra impoverita.
È il paradosso di una delle nazioni più ricche al mondo di materie prime, ma con insediata una delle popolazioni più povere del pianeta. Proprio la popolazione del Nord Kivu potrebbe essere più benestante di quella del Canton Ticino se potesse gestire le immense risorse minerarie del proprio sottosuolo: oro, cobalto, petrolio, manganite, cassiterite e coltan.
Quest’ultimo, nell’elenco delle commodity, è al top: si tratta di una lega naturale di columbio e tantalio e viene utilizzato per i più svariati scopi industriali che vanno dall’assemblaggio dei satelliti spaziali con l’utilizzo del columbio, alla realizzazione della componentistica di cellulari, tablet, computer e altri gadget elettronici. Il controllo delle terre e il sistematico sfruttamento delle risorse naturali, oltre ai continui approvvigionamenti di armi e munizioni, consente a miliziani, trafficanti e mercenari di perseguire una massiccia e devastante appropriazione e (s)vendita di un bene comune mai condiviso.
È proprio per questa ragione che da sempre il gesuita padre Rigobert Minani ha denunciato l’inganno. Si tratta di uno degli esponenti più autorevoli della società civile congolese che da anni va ripetendo che «quando si dice che il Congo è uno 'scandalo geologico' si intende che il Paese è potenzialmente ricco». E da sempre queste ricchezze hanno condizionato la storia nazionale: sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando quattro, se non addirittura cinque milioni di morti. E proprio poiché a est, lungo la linea di confine con l’Uganda e il Ruanda, la guerra di fatto non è mai terminata, sarebbe auspicabile un rinnovato impegno da parte della comunità internazionale.
Anche perché ornai da tempo la società civile del Nord Kivu sta duramente contestando la forza di peacekeeping delle Nazioni Unite (Monusco) presente nella Rdc, definendola 'inerte' e accusandola di non svolgere uno dei suoi compiti principali: proteggere la popolazione civile. Ma cosa dire dell’Europa tanto preoccupata dalla mobilità umana che proviene dalla sponda africana? Sarebbe ora che uscisse dal letargo sostenendo tutte le possibili iniziative a livello negoziale per amore del popolo congolese e per onorare la memoria del nostro ambasciatore, uomo di pace e di solidarietà.