Noi, assenti ingiustificabili. Fuori dal Global Compact migratorio
Il Global Compact per le migrazioni è stato approvato a Marrakesh alla Conferenza dell’Onu con oltre 160 voti favorevoli, rispetto ai 193 Paesi membri che due anni fa avevano avviato il percorso con un voto unanime. L’obiettivo era quello di definire un quadro di indirizzi, non vincolanti e non lesivi della sovranità nazionale (esplicitamente riaffermata nel testo) per pervenire a «migrazioni sicure, ordinate e regolari».
Il nostro Governo ha scelto, purtroppo, di chiamarsi fuori. Il rimando a un dibattito parlamentare ancora da definire sembra un modo per rendere un po’ meno bruciante la smentita della linea del premier Conte e la conseguente brutta figura internazionale, dopo che non più tardi del settembre scorso Roma si era pronunciata per il sì nella solenne cornice delle Nazioni Unite. Tra i pochi contrari figurano gli Stati Uniti e l’Australia, nonché alcuni Paesi dell’Europa Orientale riuniti attorno al gruppo di Visegrad: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, a cui si è recentemente aggiunta l’Austria. Il nostro governo su questi temi continua a corteggiare i Paesi che si sono opposti in maniera più risoluta alla redistribuzione dei rifugiati tra i membri dell’Unione Europe: proprio quelli, cioè, che più di tutti hanno voluto lasciar sola l’Italia sulla frontiera mediterranea della Ue, aprendo la strada alla defezione degli altri partner.
Il Global Compact non è stato scritto da un’assemblea di "no borders", né dettato da Soros, il finanziere che i sovranisti da complotto hanno innalzato al rango di "genio del male", sottolineando l’origine ebraica della sua famiglia e riecheggiando in tutti i modi possibili sinistri precedenti. È il frutto di ampie consultazioni che hanno coinvolto Governi, Organismi internazionali, Enti non governativi e singoli esperti. Si tratta di un documento equilibrato e prudente, articolato in 23 obiettivi, per ciascuno dei quali sono elencate diverse azioni possibili. Non manca di ribadire che spetta ai Governi nazionali definire la propria politica migratoria, distingue migrazioni regolari e irregolari, parla di lotta ai trafficanti e di sostegno al ritorno alle terre di origine. Richiama l’impegno a intervenire alla radice dei problemi che possono provocare migrazioni forzate.
Certo, contiene anche passaggi che possono non piacere a chi contesta alla radice il diritto di oltrepassare i confini per chi viene da Paesi poveri. Parla di diritti di migranti e immigrati, come l’accesso ai servizi di base o l’impiego della detenzione soltanto come misura di ultima istanza. Stabilisce il dovere di salvare le vite in pericolo.
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Dalla prima pagina Accenna a percorsi di immigrazione regolare e introduce, pur cautamente, la possibilità di autorizzazioni all’ingresso per lavoratori immigrati in relazione con le esigenze dei Paesi riceventi: un tema che d’altronde sta tornando di attualità in Paesi sviluppati alle prese con carenze di manodopera, dal Giappone alla Germania agli stessi Usa. L’obiettivo numero 20, per ironia della sorte, propone la riduzione dei costi per l’invio di rimesse da parte degli emigrati, facendo riferimento a una serie di documenti internazionali: l’impegno di chi è partito verso chi è rimasto è generalmente apprezzato come una forma di sostegno sociale e di promozione dello sviluppo locale che vede come protagonisti i diretti interessati.
Proprio i flussi di risorse che il nostro Governo ha appena deciso invece di tassare, caricandoli di una valenza negativa. Difficile credere però che gli argomenti decisivi per la scelta del Governo gialloverde siano stati i motivi di merito, comunque non vincolanti. Come mostra il magro elenco dei governi contrari al Global Compact, il tema delle migrazioni è oggi assurto a vessillo simbolico, evocativo e persino emozionale. Un tempo si sarebbe detto: ideologico. Schierarsi a prescindere contro le migrazioni, rifiutando di entrare nel merito, è il marchio di fabbrica dei Governi che propongono il ritorno a una sovranità nazionale incontrastata come la soluzione ai problemi del nostro tempo.
Come se tirarsi fuori dal consesso internazionale, evitare di discutere con gli altri, rinunciare a elaborare soluzioni condivise fosse una via di uscita praticabile rispetto a sfide di questa portata, e per un Paese come il nostro.
Sociologo, Università di Milano e Cnel