Opinioni

Piaga femminicidi. Assassino è sempre e solo il non-amore

Mauro Cozzoli* domenica 4 marzo 2018

Una strage, questi delitti passionali che vanno sotto il nome di femminicidi. Non solo per numero complessivo delle vittime: dal 2000 a oggi, solo in Italia, sono state circa tremila le donne uccise da uomini ai quali le univano vincoli sentimentali. Nel 2016 i femminicidi sono tornati a crescere rispetto all’anno precedente (da 142 a 150, +5,6%).

Trend confermato dai 114 casi (più di uno ogni tre giorni) nei primi dieci mesi del 2017. Una strage anche per numero relativo a singoli episodi, come l’ultimo che si è consumato a Latina, dove un uomo ha ucciso le due figlie, ha ferito gravemente la moglie che lotta tra la vita e la morte, e poi si è suicidato. I numeri evidenziano che non siamo in presenza di casi isolati, di delitti episodici, ma di eventi criminosi con una radice e una portata sociale.

Espressione di un fuorviamento e di un malessere etico-culturale. Tali delitti vengono comunemente designati come passionali, indotti dalla cupidigia d’amore di un uomo per la 'sua' donna. Dove la primazìa ancestrale dell’uomo s’impone al punto da esigere la sudditanza della donna e rendere impossibile una partnership, una comunione di pensieri, di affetti, di valori, di progetti. E questo per una concezione e una prassi possessiva, captativa dell’amore, che porta a una relazione di dominio e di sottomissione del più debole e del più piccolo, come la donna nel rapporto coniugale e il figlio nel rapporto genitoriale.

Possessività che provoca atti di stalking e mobbing, ricatti e minacce verso il partner che si ribella e si sottrae, e che esplode nella violenza omicida. All’atavica preminenza dell’uomo, che porta a una visione di subordinazione della donna, si salda oggi lo svuotamento valoriale dell’amore. Amore è parola sulla bocca di tutti: la più pronunciata. È comprensibile, se davvero di amore si vive. «La parola 'amore' tuttavia – nota in Amoris laetitia papa Francesco – molte volte appare sfigurata».

Privo di una grammatica e di una semantica valoriale, l’amore diventa un guscio vuoto, da riempire a piacimento. È ciò che avviene di solito oggi: l’amore perde consistenza, soggettivandosi all’opinare e desiderare individuale. A questa soggettivazione concorre la deriva a un tempo emotivistica e individualistica del pensare e del volere. L’emotivismo appiattisce l’amore sul sentire emozionale, subendone la volubilità e il trascinamento. È l’amore impulsivo, viscerale, irruente. L’individualismo centra gli altri su se stessi, così da vederli in funzione di sé. La relazione si fa autoreferenziale e l’amore invadente, geloso e diffidente. Dalle forme sottili e velate di captatività e autocompiacimento: l’amore interessato, in cui si dà per avere, per trarne una soddisfazione, un gradimento; anche con atti di ipergratificazione dell’altro, che lo legano possessivamente a sé. Fino alle forme ossessive e morbose del dominio passionale, che requisiscono l’altro, volendolo tutto e solo per sé: amore oppressivo e prevaricatore, sino all’atto omicida.

Per questo cedimento emotivistico e individualistico, l’amore soddisfa piaceri, appaga desideri, ma non libera, non porta gioia ( Amoris laetitia, appunto), non rende amabile la vita. Crea invece dipendenze, ansie, diffidenze. È un amore corrotto, malato dice papa Francesco. Un amore però che non rende buona e bella la vita, non è un amore vero. Se non è vero, è un non-amore. Perché il buono, il bello e il vero si danno insieme. Ciò vuol dire che c’è un problema d’inveramento dell’amore. Un problema culturale e pedagogico insieme. Perché di amore si vive, ma ad amare s’impara.

*Professore di Teologia morale Pontificia Università Lateranense