Ascoltatelo quell'urlo. Una madre profuga e il bimbo perduto
Immaginate, una notte, di avere un incubo. Vi trovate in alto mare, sotto a un cielo color piombo. Siete rimaste sole su gommone che si è appena rovesciato, fra onde minacciose. Vi riprendete, ma vi ritrovate con le braccia vuote. E il bambino, mio Dio, il bambino di sei mesi che tenevate stretto come un tesoro? 'Dov’è il mio bambino? Ho perso il mio bambino!
Dov’è il mio bambino?', gridate, e in quel momento vi svegliate, il cuore a cento all’ora. Ma non è un incubo, è tutto vero. Nel Mediterraneo, l’altro ieri. Un gommone con cento a bordo naufragato, Open Arms l’unica nave in soccorso, sei i morti accertati. Fra cui Joseph, sei mesi. Prologo, questa tragedia, a un’altra, di ieri: settantaquattro morti al largo di Khums, in Libia. Un nuovo massacro che non troverà molto spazio sui giornali. Ma, troviamo almeno il coraggio di guardare sul web il video del primo naufragio. L’urlo acuto della giovane madre trafigge. 'Dov’è il mio bambino? Il mio bambino!' grida in inglese al vento, al mare, ai compagni che nell’acqua annaspano, sordi a ogni cosa se non all’istinto di sopravvivenza.
Non è un brutto sogno da cui svegliarsi sudati, ritrovando in un istante la propria camera e tutti gli oggetti consueti e cari. È la realtà, a un’ora di volo da Roma. Quella giovane donna venuta dall’Africa, quale tomba si porterà per sempre dentro. Il mare, quasi impietosito, le ha poi restituito il figlio, ma per poco. Era diventato gelido, e non si è più riscaldato. Sino a morirne, povera creatura. Noi madri, padri, nonni, sappiamo tutti bene com’è un bambino di sei mesi, leggero ancora fra le braccia, gli occhi spalancati e curiosi, e i gorgoglii, e i sorrisi (sorridono, a quell’età, come se credessero in un mondo bellissimo). Provate, con uno di questi vostri bambini in braccio, a immaginare di salire su un gommone malmesso, stracarico, in un mare agitato. Come si fa a esporre un neonato al sole a picco dell’estate, alla sete, o alle tempeste dell’autunno e dell’inverno?
Alle onde alte come muri, alla rotta incerta, dentro un orizzonte senza alcuna terra, dentro a notti nere come l’inchiostro? Mentre passano, lontani, pachidermici mercantili indifferenti. E troppi girano al largo. Come si può, con un bambino, sfidare il Mediterraneo? Chi lo farebbe, se non cercando scampo a una morte sicura? In fuga dalle violenze delle prigioni libiche, oppure costretti dai trafficantisignori della guerra che buttano 'carne' di disperati in mare per fare pressione sui Governi occidentali: comunque, solo se è incalzata da una minaccia di morte una madre sale su quei gommoni.
Questo per ricordarci, pure dentro la nostra angoscia di questi giorni, che esistono, e non lontane, altre disperazioni, più grandi, e per noi difficilmente immaginabili. Perdiamolo, un minuto di lockdown, in un esercizio di immedesimazione. Con quel figlio, quel nipote piccolissimo, immaginiamo la notte in mezzo al mare, e quanto fuggiaschi e stremati e inseguiti bisogna essere, per partire. Stringere al seno un figlio di sei mesi, stringerlo tanto più quanto più urla il mare. Finché un’onda più grande ti precipita addosso: poi, il buio. In settanta sono morti così, ieri. Nella sostanziale indifferenza dell’Europa. Già ci importava poco prima, dei profughi: ora poi, che siamo assediati dal Covid... Ma come grida quella donna in mezzo al mare: credeteci, non si riesce a starla ad ascoltare.
Sembra non una madre, ma 'la' madre, l’archetipo della madre che nei millenni piange i suoi figli perduti. Quella madre è Eva, e insieme è Maria. Pochi secondi, una coltellata. Eppure, lasciamoci trafiggere. Chiusi in casa, spaventati, a volte perfino ossessionati, apriamo gli occhi a riconoscere altri mondi, e altre brucianti disperazioni. Che il nostro dolore ci serva almeno per imparare a vedere quello degli altri. (Che, forse, ci sia dato anche per questo?)