Ascoltare i «perché» del successo che arride a Salvini. Ma anche altro
Caro direttore,
sono bergamasco di nascita, toscano d’adozione. Da ragazzo a Bergamo ho visto nascere la Lega Lombarda, era la metà degli anni 80. Allora ventenne frequentavo l’Università a Milano. Al liceo avevo avuto una militanza politica dentro i movimenti studenteschi di sinistra. Capitava di incontrare per strada, sul treno, tra amici, ragazzi e adulti che si dichiaravano della Lega. In quegli anni l’unica reazione, anche solo alla parola Lega, era il rifiuto. I pregiudizi non mi hanno permesso di incontrare quella differenza. La sentivo reazionaria, di tradizione, io che volevo sradicarmi da quel territorio, da quella lingua, da quell’inflessione. Negli stessi anni morì Enrico Berlinguer. Fu l’anno in cui per la prima e unica volta il Pci sorpassò la Dc – furono le Europee del 17 giugno del 1984. Pci-Pdup: 33,33%; Dc 32,96%. Lega Nord-Liga Veneta 0.47%. Votai Pdup, il Pci mi sembrò troppo poco di sinistra. Vissi la gioia della condivisione. Domenica 26 maggio 2019 la Lega di Salvini, alle elezioni europee, ha ottenuto il 34,3%. Primo partito in Italia.
Allora ventenne mi interessavo di arte e in particolare di architettura, la facoltà scelta, di cinema e di teatro, passioni che nel tempo in alcuni casi sono diventate professioni. A Bergamo in quegli anni uno come me era visto come chi non voleva lavorare sudando. Un mantenuto.
Da pochi anni, dopo essermi occupato d’altro, insegno Storia dell’Arte in un Liceo in Maremma, non solo, continuo a coltivare la mia passione per il Cinema e il Teatro. Sento un clima attorno che mi riporta ai miei vent’anni quando chi si occupava di cultura a Bergamo o lo faceva nel tempo libero o era un perditempo. Oggi la parola che comprende ogni individuo che si occupa di cultura è radical chic. Ma ora non voglio più chiudermi e rifiutare di comprendere, come feci allora.
Ci provo facendomi aiutare da alcuni episodi. Mi è capitato di vedere un video-intervista girato al Salone del Libro di Torino. Titolo: Fabrizio Gifuni: «Il morbo del populismo è entrato anche nel lavoro dell’attore». Il bravo attore testualmente dichiara: «Ogni tanto mi viene da sorridere in questi ultimi anni perché questo morbo populista è entrato anche nelle pieghe del mio lavoro» ... «Molti miei colleghi mettono nei loro curriculum mestieri popolari come se adesso bisognasse compiacere il popolo – ha proseguito l’artista –. La trovo una cosa tragicomica: colleghi che dicono di non abitare in centro per poter lavorare col tale regista. Come se qualcuno avesse mai chiesto a Orson Welles se abitava in centro o in periferia». Leggere queste frasi non dà la sensazione esatta che si prova vedendo e ascoltando l’attore. Guardatelo. A Fabrizio vorrei dire che pudore e riservatezza sono doti innate che se assenti è bene coltivare. Pochi dei suoi colleghi, credo, hanno avuto un padre Ministro per i Rapporti con il Parlamento della Repubblica Italiana nonché Segretario generale prima del Senato e poi della Presidenza della Repubblica Italiana dal 1975 al 1987. E a proposito di case meglio sorvolare...
Altro episodio. Michela Murgia-Matteo Salvini. Ho letto con interesse e divertimento il testo di risposta della Murgia all’accusa di essere “Intellettuale radical chic e snob” da parte del Ministro. Ma subito, sempre per capire meglio questo nostro tempo, mi sono messo dalla parte di chi crede che la cultura sia una cosa poco seria. Ogni parola della scrittrice poteva risultare della stessa matrice delle illazioni di Gifuni. In alcuni casi meglio scegliere il silenzio.
Il caso Rosa Maria Dell’Aria, la professoressa di Palermo punita per non aver controllato il lavoro dei suoi studenti in cui accostavano le leggi razziali al decreto sicurezza. È stato scritto già molto su questo fatto. Anche qui ho provato a mettermi dall’altra parte per capire. È un esercizio sano.
La signora Dell’Aria fa il mio mestiere. Dalle sue interviste mi è parsa persona sensibile e onesta. Il punto di vista della Lega sulla scuola – e la cultura in generale – mi sfugge. Ricordo solo un accenno di lusinga per gli Istituti Tecnici capaci di formare ottimi operai specializzati utili all’industria. Il ministro Bussetti è indipendente di area Lega – in verità anche la sua visione mi sfugge.
Ho l’impressione che la vicenda sia accaduta per eccesso di zelo da parte di alcuni burocrati più realisti del re. La prosopopea seguita all’evento temo non abbia fatto bene, né alla professoressa, né alla scuola, né soprattutto ai ragazzi che avrebbe potuto cogliere l’occasione per capire che la libertà di manifestazione del pensiero è sancita dall’Art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, ma che a tale libertà bisogna sempre associare una capacità di lettura critica delle cose del mondo, analisi che previene le castronerie di senso.
Scrivere mi aiuta a dare ordine a pensieri ed emozioni. In questi giorni mi sto svegliando con la lingua più amara del solito, ma poco a poco va meglio. Domattina entrerò in classe parlando dell’Arte Greca cercando di generare nei ragazzi il desiderio di pensare con la propria testa, di educarli al pudore, alla curiosità, all’apertura, unica pratica certa di conoscenza dell’altro e di sé stessi.
Fabio SonzogniGrazie, caro amico. Ciò che scrive è acuto, scomodo, aperto al dibattito. Non condivido tutto, ma apprezzo intenzione e tono. Aggiungo solo, a beneficio dei lettori, che lei – docente, attore e regista – è anche il direttore artistico del Siloe Film Festival che ha base nello straordinario Monastero–Cantiere benedettino di Siloe, in Maremma, e che ogni anno assegna tre premi (del pubblico e di due Giurie: una composta da esperti, l’altra da giovani 18–25enni). Per dare un’idea di ciò che il Festival riesce a muovere, basta un dato: nel 2018 ha visto la partecipazione di 2.515 film di tutto il mondo. Quest’anno la sesta edizione ha come tema “Realtà” e si terrà tra il 19 e il 21 luglio. Che c’entra tutto questo con l’argomento della sua lettera? Diciamo che offre ulteriori coordinate e dà l’idea della direzione nella quale, negli anni, lei ha sviluppato la sua idea di “militanza” e il suo concreto impegno intellettuale, spirituale e civile.
E vengo al punto. Mettersi nei panni della “gente”, provare a vedere con gli occhi “altri”, aprirsi per sentire ciò che gli “altri” sentono, ascoltare e immedesimarsi è disciplina necessaria non solo per i curatori di res publica e bene comune (questo, sempre, dovrebbero essere i politici) e per i curatori di anime e di intelligenza, ma anche per chi interpreta la vita per arte e con arte, e persino, più modestamente, per chi scrive sui giornali. Qui ad “Avvenire”, come sa, ci proviamo per davvero. Come proviamo a dar conto della complessità e della realtà dei problemi e delle urgenze di persone, famiglie e comunità. Rompendo confini e stereotipi. E questo significa sfidare la corrente (anche comunicativa) dominante in questo tempo in cui la complessità non è di moda e si cercano e trovano (anche politicamente) quasi solo risposte semplici, dure e squadrate alle articolate questioni che abbiamo davanti: dalle disuguaglianze alle migrazioni, dai cambiamenti climatici alle manipolazioni dell’umano (e per questo subiamo anche noi, come altri ben più grandi di noi, le caricature ostili e le amputazioni violente delle ragioni che cerchiamo di condividere). Questa china sembra portare a una semplificazione utile e invece c’è una confusione che continua a crescere, a destra come a sinistra (uso queste coordinate solo “geograficamente” perché tutti possiamo renderci conto che da una parte come dall’altra le idee–guida sono state – ahinoi – colonizzate dall’individualismo egotista e anche certa religiosità che pare ridotta a rito e slogan). Ma in questo momento più dolorosamente, a mio parere, la deriva avviene a destra. Tutto, proprio tutto, deve essere ridotto a un bianco e un nero contrapposti in cui il discrimine non è più – umanamente e cristianamente – una chiara idea del bene e del male: migranti, lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani, preti, insegnanti, imprenditori, no–vax, scienziati... Uno vale uno, qualcuno neanche quello e nessuno vale davvero. Rischia di contare (questo è il verbo!) solo il minuscolo o cospicuo interesse contingente di questo o quel gruppo. E se c’è un buon 40% degli italiani che ora pende sovranamente da una parte non possiamo dimenticarci del restante 60 per cento. E soprattutto del Vangelo (che – me lo ricordo spesso – propone non modi di dire, ma modi di fare) e della Costituzione. Ecco perché anche noi non ci arrendiamo. E proviamo a nostra volta a farci ascoltare. Perché bisogna ascoltarsi, non ascoltare e basta. Un po’ come fa lei a scuola, a teatro, e col cinema. Grazie ancora.