Neuroscienze. Arriva in tribunale la tecnica che può svelare i falsi ricordi
Giuseppe Sartori, Pietro Pietrini (a sinistra) e Guglielmo Gulotta (a destra) durante un’udienza
Le neuroscienze promettono da anni di rivoluzionare i processi e addirittura il diritto stesso. Ma quando si parla di istituti giuridici e decisioni giurisprudenziali nell’ambito che riguarda la libertà degli imputati e la difesa della società, i passi non possono che essere improntati alla prudenza. L’Italia è comunque in prima linea per quanto riguarda l’ingresso delle scienze del cervello nelle aule di giustizia già da un decennio con sentenze (a Trieste e a Como) che hanno considerato specifici assetti genetici e disturbi del funzionamento cerebrale come elementi di riduzione dell’imputabilità del reo ed elementi per riduzione della pena. Ora si registra un altro passo interessante rispetto alla possibilità di testare, almeno in alcune circostanze, la veridicità dei ricordi riferiti dai sospettati ma anche dai testimoni.
La vicenda umana e giudiziaria è brutta e dolorosa, ma nel suo ultimo passaggio ha permesso la riabilitazione di un innocente grazie anche a una nuova tecnica che potrebbe ora trovare maggiore spazio nei procedimenti penali. I fatti risalgono al 2002, quando a Milano vengono denunciati, dalla madre di una bambina di 4 anni, lo zio e il suo compagno per abusi sulla piccola. Arrivano le condanne per il fratello della donna, che poi si suiciderà, e per il coimputato, accusato di reati meno gravi, in particolare di avere scattato fotografie durante le presunte violenze. Quest’ultimo, il Signor C, lo chiameremo così, si professa innocente e il percorso giudiziario è accidentato, tra sentenze di colpevolezza e assoluzioni. Alla fine sconta due anni di carcere per una condanna definitiva del 2016, prima di venire scarcerato una volta ottenuta la revisione del processo, favorita dal ritrovamento dell’ultima lettera del compagno che, prima di togliersi la vita, aveva lasciato un messaggio, fino a quel momento ignorato, in cui scagionava di fatto il Signor C.
In Corte d’Appello a Brescia, si è svolto recentemente un nuovo dibattimento – concluso pochi giorni fa con l’assoluzione piena – nel quale ha fatto la sua comparsa da protagonista lo a-Iat. Si tratta di un test computerizzato che permette di verificare l’autenticità dei ricordi della persona esaminata. Le imputazioni a carico del soggetto erano fin dall’inizio basate soltanto sul racconto della bambina, ascoltata nel procedimento quando aveva 6 anni, tra molte contestazioni da parte delle difese, per il fatto che il racconto di un minore presunto oggetto di abusi va raccolto con grande delicatezza ma anche con il massimo rigore, perché i ricordi non vengano inquinati o involontariamente si finisca con il suggerire qualcosa a una persona che è sotto stress e non ha ancora compiuto il suo percorso di sviluppo cognitivo ed emotivo.
Questa la ragione per cui il pool di difesa guidato dall’avvocato Guglielmo Gulotta, figura di rilievo della psicologia giuridica accademica e forense italiana, ha cercato una sponda nelle neuroscienze, con il suo gruppo di consulenti, in particolare con Pietro Pietrini, psichiatra e neuroscienziato, direttore della Scuola IMT di Lucca, e Giuseppe Sartori, docente di Neuroscienze forensi e Neuropsicologia forense all’Università di Padova. L’idea era di corroborare le dichiarazioni di innocenza dell’imputato. «Le neuroscienze possono avere un impatto notevole in ambito forense, per questo ho creato un team interdisciplinare che ha già ottenuto importanti risultati. Siamo adesso di fronte a una tecnica, che si candida a rilevanti utilizzi», spiega Gulotta. Cosa di meglio, in questo caso, che potere guardare nel cervello di una persona per verificare che le sue parole corrispondano ai suoi pensieri e ai suoi ricordi? Non avremmo la certezza che si tratti di una descrizione oggettiva (ci possiamo formare una convinzione sbagliata), saremmo però sicuri che è una testimonianza sincera.
L'a-Iat (acronimo di test autobiografico di associazione implicita) ci può aiutare nel primo caso. E questo perché unire verità e bugie per il nostro cervello è complicato, così come mettere insieme cose che di solito sono separate o di cui non abbiamo avuto esperienza. L’Iat è uno strumento che è stato sviluppato per studiare la forza dei legami associativi tra concetti rappresentati in memoria e vie- ne attualmente somministrato attraverso un computer. Sul monitor compare uno stimolo e al partecipante viene chiesto di classificarlo, il più velocemente ed accuratamente possibile. Ogni volta che uno stimolo appare sul monitor, il rispondente lo deve ricondurre alla categoria di riferimento. Un aspetto fondamentale dello Iat consiste nel fatto che il partecipante ha a disposizione due soli tasti di risposta cui sono associate due categorie di risposta. Il test si basa sull’idea che dovrebbe essere più facile e più rapido associare un concetto e un attributo ('fiore' e 'bello') quando questi sono fortemente correlati in memoria rispetto a quando i concetti sono debolmente associati ('ragno' e 'piacevole'). L’Iat è stato originariamente ideato 25 anni da alcuni psicologi per misurare i pregiudizi impliciti, soprattutto razziali, che le persone nutrono e da cui sono condizionate, ma non ammettono né confessano nemmeno a se stessi.
E steso ai ricordi personali soprattutto per merito di Sartori e del suo gruppo padovano, l’Iat autobiografico sembra permettere di accertare, al di là di quanto l’individuo dichiara, se c’è una traccia mnestica del ricordo in oggetto. «Sullo schermo di un computer vengono presentate frasi che rappresentano ricordi alternativi e vengono indotte situazioni di diversa complessità. Dalla velocità di risposta si ricava, senza che il soggetto lo dica esplicitamente, quale è il suo ricordo vero. Lo a-Iat è un adattamento di una tecnica molto valida e studiata ampiamente dai ricercatori a livello internazionale», spiega Sartori. Ma quanto è affidabile? Per Sartori, che ha lavorato a lungo con Gulotta e Pietrini anche in altri processi, «le ricerche dimostrano che il test, se costruito in modo adeguato, ha un’accuratezza che nell’identificazione del ricordo vero è superiore al 90%. Chi fa la prova si trova in una situazione simile a guidare con le gambe incrociate. Il cervello associa automaticamente il piede destro all’acceleratore e ciò fa sì che si allunghino i tempi e aumentino gli errori. Nel caso del ricordo, quello vero corrisponde alle condizioni normali, per cui il soggetto riesce a rispondere più rapidamente». I giudici di Brescia hanno quindi voluto un parere scientifico esterno affidando la perizia (di fatto una perizia sulla perizia) sull’affidabilità della tecnica a Michela Balconi, psicologa e neuroscienziata cognitiva dell’Università Cattolica, molto attiva nella ricerca sui correlati cerebrali del pensiero e delle emozioni. Balconi ha elaborato un’approfondita revisione della letteratura scientifica sul tema, giungendo ad affermare che la a-Iat è «misura atta a verificare se uno specifico episodio o fatto sia presente come memoria vera o falsa nella mente del soggetto ». E nella mente dell’imputato C non risulta esistere alcuna traccia dei fatti per cui era stato condannato.
«Le neuroscienze non hanno lo scopo di sostituirsi all’esame psichiatrico nel processo – commenta Pietrini –. Esso rimane il cardine della valutazione. Possono tuttavia ridurre il grado di variabilità soggettiva e rendere quindi la valutazione più oggettiva, come in questo caso, dove la possibilità di imbrogliare la macchina è minima perché il computer rileva scarti di millesimo di secondo e solo con un allenamento specifico si può tentare di variare la velocità delle proprie risposte in modo che il programma non se ne accorga». L’assoluzione del signor C non si deve solo allo a-Iat, che già aveva avuto un ruolo in un processo per molestie a Cremona. L’accettazione dello strumento che 'valuta' i ricordi non sarà comunque facile e rapida. Sia per una certa diffidenza delle Corti sia perché nella stessa comunità scientifica non c’è ancora un unanime riconoscimento della sua validità.