Opinioni

Un anno dopo la «primavera araba». L’arduo cammino

Giorgio Ferrari venerdì 16 dicembre 2011
Il 17 dicembre di un anno fa un disoccupato laureato di nome Mohammed Bouazizi che campava a stento facendo il fruttivendolo si dava fuoco in una piazza di Tunisi per protestare contro il corrotto regime di Ben Alì. Come i bonzi tibetani. Come Jan Palach. L’estrema protesta, il corpo di Bouazizi che si fa oggetto politico rivoltandosi contro la sua stessa natura, dava l’avvio a quella catena di rivolte nel Maghreb che con il passare dei mesi – dopo che il fuoco della protesta dilagava in Egitto, nello Yemen, nel Bahrein e quindi in Libia e in Siria (senza dimenticare l’insurrezione che accompagnò la rielezione di Ahmadinejad in Iran) – avrebbe preso il nome di Primavera Araba.Anche la rivista americana Time celebra proprio l’<+corsivo>indignado <+tondo>arabo quale uomo dell’anno, associandolo agli occupanti newyorkesi, ai madrileni, ai russi di questi giorni. Una celebrazione molto ambigua, però. Perché quella primavera, che sembrava soffiare su una Mezzaluna Fertile di speranze dal Marocco a Bagdad e da Sanaa fino al Golfo Persico non sembra aver dato i frutti che le democrazie occidentali – e lasciatecelo dire, forse anche una notevole parte delle popolazioni interessate dalle insurrezioni e dai cambi di regime – speravano.I germi erano già presenti sotto traccia, ma è stato il responso delle urne a farli venire allo scoperto. Vincitori delle elezioni, in Tunisia, in Marocco, in Egitto sono inconfutabilmente formazioni di ispirazione islamica, primi fra tutti i Fratelli Musulmani, dietro i quali si nascondono però anche i Salafiti e il radicalismo religioso che trova presa e sostegno in al-Qaeda. Lo stesso profilo che si scorge dietro la confusione che regna nella Libia del dopo-Gheddafi, con una costante e implacabile tattica: ovunque vi sia una consultazione elettorale il vecchio motto islamico "Allah è la soluzione" viene sostituito con il ben più rassicurante "Benessere per tutti", ovunque vi sia ancora scontro di piazza l’islam politico e radicale (lo abbiamo visto con i nostri occhi in Libia) si tiene a debita distanza, attendendo il momento propizio per guadagnare la maggioranza dei seggi. Gli stessi Salafiti non fanno mistero di voler modificare le Costituzioni che i laici arabi tentano di costruire sul modello occidentale, ribadendo che solo la Sharia (la legge coranica) è ammissibile. Grandi sponsor di quella che a tutti gli effetti si configura come la più vasta operazione geopolitica degli ultimi vent’anni, l’Arabia Saudita (con generosi finanziamenti), il Qatar (con l’onnipresente Al Jazeera), la Lega Araba (con il suo ombrello ideologico).Non stupirà dunque in questo scorcio di fine anno, una desolante constatazione: ovunque si affacci l’islamismo che si pretende moderato (il modello prevalente è quello turco di Erdogan, con un forte partito di ispirazione religiosa, ma laico e secolarizzato nelle sue scelte) aumenta l’intolleranza nei confronti delle minoranze religiose. Accade ai cristiani copti in Egitto (almeno 8 milioni di anime, il 10% e più della popolazione), come ai caldei in Iraq (calati negli ultimi anni da 1 milione di persone alla metà), senza trascurare la Libia (dove le inclinazioni verso il radicalismo islamico sono trasparenti e più che annunciate), lo stesso Libano (un tempo modello di convivenza fra 13 differenti confessioni religiose), per non dire della Siria, dove il timore di una vittoria sunnita nei confronti dell’estenuato clan alauita degli Assad induce i cristiani a rifugiarsi sotto la protezione del satrapo di Damasco. La stessa Turchia, modello eletto delle primavere arabe, non è da meno: pensiamo solo al feroce assassinio del vescovo Padovese a Iskenderun, di padre Franchini a Izmir, di don Santoro a Trebisonda. A conferma che l’islamismo non è proprio sempre moderato. Inutile dire degli ebrei: minoranza nelle minoranze, hanno stentata cittadinanza nelle contrade arabe. Il futuro dirà se all’ombra della Mezzaluna potrà sbocciare in questi Paesi che hanno speso sangue e dolore per liberarsi delle loro satrapie sanguinarie e dispotiche qualcosa che assomigli a una democrazia. Ma i presupposti sono tutt’altro che incoraggianti: il cammino è arduo e si annuncia lungo.