Fine vita. Archie e le nostre domande tra bioetica, coscienza e realtà
Informazione e criteri etici per giudicare fatti come la morte del 12enne inglese dopo il distacco dei supporti vitali. Nella foto Archie Battersbee nel letto dell’ospedale di Londra tra i suoi peluche
Il 'caso Archie' ha colpito fortemente l’opinione pubblica. Non è il primo caso – si pensi ad Alfie Evans e Charlie Gard – e non sarà certo l’ultimo. Sono casi, soprattutto quelli che riguardano bambini, che fanno emergere in modo estremamente coinvolgente gli interrogativi di cui si occupano la bioetica e la biogiuridica. Tutto ciò che è tecnologicamente possibile è anche eticamente giustificato e giuridicamente legittimo?
Non è affatto facile rispondere a questa domanda. Ancora più difficile articolare la domanda rispetto al caso specifico. La bioetica ci insegna una prima cosa: ogni caso clinico, in particolare proprio i casi complessi, come quello di Archie Battersbee (il 12enne inglese morto il 6 agosto al Royal London Hospital al termine di una battaglia legale tra genitori, medici e giudici) dovrebbero essere oggetto di una valutazione medica, etica e giuridica circostanziata, riferita alla condizione specifica del soggetto. Eppure Archie è divenuto un 'caso pubblico', attraverso i mass-media e i social network. Frammenti della storia di Archie sono emersi dai giornali e dalle interviste: è possibile ricostruire il caso, ma non con la dovuta completezza, indispensabile per una adeguata valutazione bioetica. Bisogna dunque partire da una premessa necessaria: qualsiasi cosa si scrive o dice su Archie è inevitabilmente parziale, perché parte da conoscenze indirette e incomplete. Ogni caso bioetico, di quelli che ormai costellano la storia della bioetica, ha il merito di suscitare attenzione sui problemi da parte dell’opinione pubblica, ma corre il pericolo di essere distorto o non adeguatamente compreso.
L’unica cosa certa è che Archie era un bambino bellissimo, intensamente amato dai genitori, che non hanno comprensibilmente accettato la sua morte e la causa drammatica e ancora più inaccettabile che ha provocato la sua malattia e il decesso: un gioco-sfida nel mondo dei social network, che ha determinato un soffocamento con la conseguente devastazione cerebrale, irreversibile. Emergono tanti interrogativi, a cui non è facile dare risposte. Archie era cerebralmente morto? Quando cessano in modo irreversibile tutte le funzioni cerebrali, non ha alcun senso medico, etico, legale, ventilare un paziente. Ventilare, in queste condizioni, sarebbe solo un allungamento 'artificiale' di una vita che non è più vita ma solo un prolungamento voluto da chi non accetta la morte, un 'accanimento tecnologico'. Non si può eticamente e legalmente ventilare un paziente già morto, solo perché gli altri (i genitori, nella fattispecie) lo desiderano. Staccare i presìdi tecnologici in questo caso è sempre doveroso sotto il profilo medico, etico e giuridico. Ma non era il caso di Archie.
Archie stava per morire e la sua morte è stata provocata dalla sospensione della ventilazione meccanica? In questo caso, a fronte di una patologia inguaribile e di una morte imminente, la sospensione della ventilazione meccanica è un atto eticamente giustificato, in quanto l’uso della tecnologia è sproporzionato e futile, ossia sbilanciato tra i benefici non possibili (il recupero del paziente, o almeno il miglioramento della sua qualità di vita) e i rischi possibili (provocare ulteriori danni, potenzialmente anche sofferenza). Continuare la ventilazione sarebbe un 'accanimento clinico', ossia un prolungamento penoso del vivere a fronte di una morte imminente inevitabile.
Chi doveva decidere per Archie: i medici o i genitori? I medici sono coloro che devono definire se le tecnologie sono o non sono clinicamente futili, se vanno sospese e quando, per le competenze specialistiche e per la conoscenza del caso clinico. Per quanto comprensibile l’attaccamento dei genitori, è indispensabile la competenza scientifica, che deve essere obiettiva e imparziale. I genitori non sono medici e spesso vivono una condizione emotiva che li devasta e rende quasi impossibile pensare con lucidità. I medici non devono prendere decisioni solo per accondiscendere i genitori ma proporre sempre ciò che è clinicamente giustificato per il ' migliore e superiore' interesse del piccolo paziente. I medici certamente devono dialogare con i genitori, ascoltarli e delineare percorsi che siano a loro comprensibili, anche in modo empatico. Non è certamente facile farlo, per questo serve una adeguata formazione bioetica.
Perché sono intervenuti i giudici? Come sempre i magistrati intervengono quando emergono controversie, in questo caso tra i genitori e i medici. Qualcuno, in Inghilterra, auspica una legge che regoli le procedure di fine vita, mediante un 'protocollo di sospensione della ventilazione': tuttavia, per quanto i protocolli siano indubbiamente utili per uniformare i trattamenti, non possono essere applicati rigidamente ma vanno adeguati alle esigenze dei singoli casi. In situazioni come questa, così complesse, l’intervento del giudice esige la consultazione di altri medici, e auspicabilmente anche di bioeticisti. I giudici stessi dovrebbero avere una adeguata formazione bioetica.
La verità, da quanto si apprende dai media, è che i genitori non chiedevano la continuazione della ventilazione artificiale ma il trasferimento in un altro ospedale affinché potessero esse- re valutati eventuali ulteriori percorsi terapeutici possibili, o anche una rimodulazione delle cure con accompagnamento palliativo e l’uso della care medicine. Un accompagnamento per il paziente e per la famiglia, mai abbandonando, sempre umanizzando le cure e il 'prendersi cura'. Va considerato il problema del trasferimento e della possibilità di una second opinion: ai genitori dovrebbe essere data sempre questa possibilità, con l’aiuto della stesse équipe che tiene in cura il piccolo paziente (laddove il trasferimento non mette in pericolo la sua vita).
Il piccolo Archie e tutte le domande emerse ci fanno capire l’importanza di una riflessione bioetica critica, e non solo emotiva, in un’era di rapido avanzamento tecnologico nella biomedicina, dove bisogna saper fare i conti anche con la malattia, la morte, il limite della medicina. In questo contesto è importante la comunicazione (e la formazione alla comunicazione) dei medici con la famiglia, nella drammaticità della perdita e della separazione del loro bene più grande, per evitare che un terzo – il giudice – entri in materie così delicate.
Ciò che è mancato è il parere di un comitato etico per la pratica clinica (mai menzionato nei media) che avrebbe potuto offrire un contributo di mediazione tra i medici e la famiglia, aiutando i medici e i genitori a capire alcune problematicità etiche delle scelte possibili, e forse evitando il ricorso ai giudici. Il comitato etico per la pratica clinica è lo 'spazio etico' del confronto con i medici, che hanno diretto contatto con il malato e la famiglia e possono confrontarsi con esperti di etica che, mediante un dialogo interdisciplinare, cercano insieme di elaborare una valutazione della condotta eticamente giustificabile nel caso concreto e specifico, alla luce dei princìpi generali della bioetica e della cornice normativa internazionale e nazionale, nel rispetto della dignità umana e dei diritti umani fondamentali.
Ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa Vicepresidente uscente del Comitato nazionale per la Bioetica