Analisi. Ideologie, creatività, politica, finanza: la favola Disney affronta la crisi
Strange World - Un mondo misterioso, diretto da Don Hall
Nell’anno che si è appena concluso la Disney ha festeggiato il suo centenario, ma è stata una celebrazione sicuramente preoccupata. Soffiano venti di crisi, e il valore di Borsa è ormai dimezzato rispetto a un paio di anni fa. Nel 2023, per la prima volta dopo molti anni, la Disney non ha ottenuto il primato degli incassi fra le major hollywoodiane e nessun suo film ha superato il miliardo di incassi, cosa che invece hanno fatto titoli come Barbie (Warner Bros) e SuperMario (Universal).
Wish, il film di animazione Disney del Natale 2023, che doveva essere un omaggio anche a tanti classici, è stato un disastro al box office americano con un totale di 62 milioni su un budget di quasi 200 (in Italia ha superato gli 8 milioni, un buon risultato, ma ovviamente quello che pesa è soprattutto l’incasso negli States). Se il film non era un capolavoro (sembra un po’ un manuale di politically correct), non era neanche brutto, come invece altri recenti: segno che molto pubblico americano ormai non ha più fiducia nel brand Disney. Fosse davvero così, la perdita di valore per l’azienda diventerebbe incalcolabile.
Si preparano venti di guerra per il rinnovamento del board in primavera, con diversi azionisti di minoranza che vogliono chiedere conto all’amministratore delegato Bob Iger di tutta una serie di scelte degli ultimi anni, che hanno spinto l’azienda a sposare la battaglia delle ideologie gender, cosa che ha molto contribuito ai pessimi risultati al botteghino. Nel novembre 2022, alla vigilia dell’uscita di Strange World, film d’animazione con un ragazzino protagonista che si rivela omosessuale, film risultato disastroso al botteghino, il consiglio di amministrazione della Disney aveva mandato a casa il ceo Bob Chapek tornando ad affidarsi all’uomo che l’aveva guidata dal 2005 al 2020: per l’appunto, Bob Iger. Chiaramente un segnale agli investitori, in un momento di difficoltà delle azioni, che annunciava un qualche cambio di rotta pochi mesi dopo l’altro disastro che ha rischiato di rovinare anche un brand solidissimo come la Pixar: il film Lightyear, l’infelicissima uscita più recente di un franchise per famiglie di enorme successo come Toy Story. Anche Lightyear era condito di ideologia woke, con storyline (secondaria, ininfluente e quindi ovviamente inserita apposta) di due “mamme” con conseguente fecondazione artificiale. La pellicola ha incassato poco più di 200 milioni, quando i capitoli precedenti della saga avevano totalizzato più di un miliardo l’uno.
La cosa paradossale è però che chi conosce i tempi di produzione dei film di animazione – almeno tre anni per la realizzazione di un prodotto pronto per le sale – sa che questi due film erano stati approvati da Iger e non da Chapek. Quest’ultimo, che veniva dal mondo dei parchi a tema e dal marketing, era risultato però presto inviso alla comunità creativa losangelina, anche perché era accusato di essere troppo tiepido nel portare avanti le battaglie che la Disney negli ultimi anni sembra avere condiviso a corpo morto. Era infatti salita alla ribalta dei media la reazione di Chapek, giudicata da alcuni troppo blanda, alla legge che il governatore della Florida e ormai ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti Ron De Santis aveva promosso per evitare che si parlasse di tematiche sessuali esplicite ai bambini piccoli. La legge – ribattezzata dai suoi detrattori “Don’t say gay”, e che in realtà vieta di affrontare temi di contenuto sessuale a scuola con bambini sotto gli 8 anni – voleva mettere un freno alla diffusione di argomenti sessualmente espliciti nel sistema educativo dello Stato.
La sostituzione di Chapek nel novembre 2022 era quindi stata una mossa per dare l’idea di un cambiamento tempestivo, che però ha avuto più il valore dei segnali di fumo che non di un cambio realie di rotta. Negli ultimi investor days della Disney (gli incontri trimestrali con i detentori di azioni) ci sono stati azionisti che hanno alzato la voce per sottolineare come l’estremismo con cui l’azienda ha sposato la causa lgbt avrebbe fortemente danneggiato l’azienda perché il pubblico di famiglie sembra averle voltato le spalle. Fra l’altro, i film con questi contenuti non possono nemmeno uscire in alcuni Paesi commercialmente importanti come la Cina. La risposta di Iger sembra aver promesso un po’ più di moderazione e di tutela dei bambini piccoli da contenuti inappropriati, ma i prossimi mesi (e i successivi due-tre anni) ci faranno sapere se è davvero così. Anche perché uno dei compiti principali che si è dato Iger è trovare un successore entro il prossimo biennio.
Nell’animazione degli ultimi anni sono andate invece molto bene le varie uscite di Cattivissimo me (con anche i Minions), i cui autori sono originariamente mormoni, e anche, in una dimensione più piccola, un fenomeno europeo di cui non si parla: le produzioni spagnole di Taddeo l’esploratore e più di recente di Mummie, a spasso nel tempo, entrambe frutto di uno stesso team creativo, che sull’onda della Disney classica vuole invece fare vero intrattenimento per famiglie, senza nessuna strizzata d’occhio a nuove ideologie. Costato solo 12 milioni, e distribuito a livello mondiale da Warner, Mummie – in fondo, un piccolo film europeo – ha superato i 50 milioni di incasso. C’è poi da considerare il risultato eccezionale nel 2023 di SuperMario Bros., la cui produzione è di Illumination, la stessa di Cattivissimo me: più di un miliardo e 300 milioni nel mondo.
La notizia più dolorosa è che in conseguenza di questa crisi di identità e di indirizzo, che ha causato anche perdite di abbonamenti alla piattaforma tv Disney+, la Disney ha annunciato ben 7.000 licenziamenti, e anche in Italia ci sono state diverse riduzioni di personale. Tra i personaggi lasciati a casa c’è anche Ike Perlmutter, imprenditore israeliano, ex proprietario della Marvel (venduta a Disney per 4 miliardi di dollari) e azionista Disney, che aveva iniziato una battaglia per inserire nel consiglio di amministrazione un miliardario e imprenditore suo amico, Nelson Peltz, anche lui, come Perlmutter, repubblicano e supporter di Trump. Perlmutter era molto critico con l’ideologia (e il costo) degli ultimi film Disney, e quindi costituiva una spina nel fianco per Iger, anche se la sua posizione nell’azienda era ancora abbastanza defilata perché si occupava direttamente solo dei fumetti Marvel, avendo perso la battaglia con Kevin Feige per il controllo sui film che Marvel produce per Disney. Nella primavera 2022 Perlmutter aveva pubblicato una lettera sul Wall Street Journal, ripresa da diversi altri giornali, in cui si toglieva più di qualche sassolino dalla scarpa.
Si stanno dunque affilando le armi per la battaglia di primavera in vista del rinnovo del consiglio di amministrazione Disney. Vari investitori sono scesi in campo a favore di Iger o di Peltz. Tutto lascia pensare che la battaglia sia non solo economica ma anche ideologica, e di conseguenza, almeno in parte, politica. Occorre quindi vedere se e quanto Iger reggerà, e soprattutto se riuscirà a riportare in carreggiata l’azienda sganciandola dall’adesione a un’ideologia che la sta portando al collasso creativo ed economico.
Armando Fumagalli è direttore del Master in International Screenwriting and production allUniversità Cattolica di Milano