I dati dell'Anac. Appalti, le regole da sole non bastano. Serve la fiducia
Servono le regole migliori, ma da sole le regole non bastano. Tanto è vero che spesso è la stessa norma a far riferimento al “clima” che deve circondarla per una sua piena efficacia. L’articolo 2 del nuovo codice appalti, entrato in vigore un anno fa e pensato (anche) per agevolare l’applicazione del Pnrr, dice che “l’attribuzione e l’esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”. In pratica: senza l’allineamento di interessi tra pubblico e privato, si va poco lontano.
La concomitanza tra gli sviluppi del caso Liguria e la fotografia scattata ieri dall’Anac sugli appalti assegnati in forma diretta e gli spazi per fenomeni corruttivi confermano che quando gli interessi da mediare sono tanti e pesanti la soluzione non può essere, soltanto, in una norma. Una regola funziona se viene correttamente applicata, ma – da sola – non potrà cambiare una società che espressamente la rifiuta o non ne riconosce la ratio, cioè lo scopo ultimo che il legislatore intende perseguire.
In un Paese strutturalmente indietro su tutti i cantieri per lo sviluppo com’è l’Italia, la variabile tempo è fondamentale: non c’è un minuto da perdere, su nessun fronte. Di qui è emersa nel tempo la necessità di un codice degli appalti che consentisse di accelerare sui lavori, almeno i più piccoli; e di qui l’opportunità di seguire la strada maestra, e cioè un maggior ricorso agli affidamenti diretti, che nascono con l’obiettivo di limitare gli adempimenti in caso di lavori con importi inferiori ai cinque milioni. Tutto bene e tutto utile, non fosse che siamo in un Paese in cui appena si apre uno spazio per fare un affare c’è chi è pronto a occuparlo, senza se e senza ma. Non a caso la prima a temere che il nuovo codice appalti, entrato in vigore pochi mesi fa, porgesse troppo la mano a chi se ne può approfittare è stata l’Europa, da cui era partita la spinta a rivedere le regole.
Dai dati forniti ieri dall’Autorità anti corruzione è emerso che il 90% delle procedure di spesa effettuate nel 2023 dagli enti locali è avvenuta mediante un affidamento diretto, e dunque fuori da logiche pienamente concorrenziali. Quelle in cui la “reciproca fiducia” di cui sopra è fondamentale e, nella sostanza, data per scontata. Non possiamo permetterci di sospettare che intorno agli oltre 200mila affidamenti diretti del 2023 ci siano stati interessi di parte, anche se i particolari che emergono dall’inchiesta ligure, così come un altro numero fornito dall’Anac – un caso di corruzione in un Comune su quattro nel corso degli ultimi sei anni – non autorizzano particolare ottimismo.
Siamo alle prese con un fatto culturale, come hanno ragionato autorevoli esperti negli ultimi giorni. E su Avvenire domenica abbiamo ricordato che la quota di bene comune sul tavolo richiederebbe che le risorse pubbliche e private venissero usate, e non fossero invece un motivo per farsi usare da amministratori della cosa pubblica. Valeva in passato, ma vale a maggior ragione oggi viste le cifre mobilitate dal Pnrr: le risorse non sono nostre, e saremo giudicati non solo per il fatto di averle realmente spese ma anche su come abbiamo deciso di spenderle, e a vantaggio di chi. C’è tempo per affinare le regole, che si tratti ancora del codice appalti, della disciplina per il finanziamento alla politica o delle norme che regolano l’attività delle lobby, tutti strumenti per rendere più trasparente la gestione della cosa pubblica. Ma non illudiamoci: concentrare l’attenzione su regole migliori rischia di essere solo una scusa per rinviare la questione di fondo, che è tutta una questione di fiducia (ben riposta).