La tragedia di Aymaville, Aosta. Non lanciate maledizioni su quello sfigurato amore
In un bar di Milano, alle otto di mattina, la giovane barista smette di lavare le tazzine e si volta a guardare un tg che racconta della madre di Aymaville. Poi scuote la testa, costernata china lo sguardo: non capisce. Sul web la tragedia di Marisa Charrère, l’infermiera valdostana che ha ucciso i figli di sette e nove anni e si è uccisa con la stessa soluzione di potassio in vena, genera sgomento ma anche rabbia, e maledizioni: "Ucciditi pure tu, se vuoi, ma i bambini non li devi toccare", scrivono.
È intollerabile, incomprensibile la morte data ai propri figli, e non in uno scatto di rabbia, ma freddamente, con le fiale portate a casa dall’ospedale in cui la donna lavorava. E tutto, attorno, perfetto: un paesino tra splendide montagne, una famiglia unita, un marito affettuoso, le gite sui sentieri con i bambini. Mai sentite liti, dicono, sconvolti davanti alle telecamere, i vicini. Ma nelle lettere lasciate l’infermiera dice di non reggere più il dolore, di non sapere più far fronte a troppa sofferenza. Quale sofferenza? si domandano attoniti i compaesani. Sembrava felice, la famiglia di Oswald Empereur. Nessuno aveva intuito.
Intollerabile, incomprensibile la morte piombata con i primi rigori dell’inverno in una famiglia serena. Nell’utilitaria davanti a casa, ancora le borse della spesa: viveri, detersivi, saponi. Come se fino alla penultima ora Marisa Charrère avesse fatto di tutto per condurre una vita normale. Magari era andata al supermercato con la lista delle cose mancanti: caffè, olio, merendine per i bambini. Per la colazione del mattino dopo. Poi, quale voragine le si è spalancata davanti? Gli psichiatri parlano di una forma di depressione gravissima. Forse, può capire almeno un poco la genesi di questa tragedia, chi è passato attraverso una depressione severa.
Quando il mondo attorno viene deformato e stravolto dalla malattia, pur restando il malato lucido, e in grado anche di nascondere il suo stato mentale. Di parlare, lavorare, scherzare, come se tutto fosse a posto. Tenendo in sé, chiusi a doppia mandata in un antro nascosto, i suoi autentici pensieri. Una sofferenza che taglia come un coltello affilato, una solitudine implacabile. Il distacco da ogni desiderio. E, crescente, la convinzione che stare al mondo costi troppo dolore. Per cosa, poi? Come si fosse soldati chiamati al fronte di una guerra senza ragione. Come soldati che cercano l’istante per disertare.
Questa disperazione cova in sé, un depresso grave. Malattia e disperazione, qual è il confine? Se ne può perdere la cognizione, in mondo ormai deformato. A tratti l’urgenza della realtà, il lavoro, i figli, chiamano indietro dalla malattia: c’è da fare la spesa, è l’ora di cena, bisogna far da mangiare. Forse Marisa Charrère, donna, dicono, di carattere chiuso, a lungo ha oscillato su questo crinale, incapace di chiedere aiuto. Forse ha creduto di potercela fare, di saper trattenere quei pensieri nel recinto in cui abitualmente li richiudeva. Ha pensato di saperli domare.
Fino a qui, chi ha provato una depressione grave – ai sani spesso incomprensibile – può arrivare a capire. Oltre, si apre la soglia come di un’altra dimora. La malattia che prende il controllo, e guida, lasciando sul volto del malato un simulacro di ragione. Le fiale sottratte in ospedale e portate a casa, sulla stessa utilitaria carica della spesa, e dei palloni dei bambini. Forse, anche l’altra sera la donna voleva preparare la cena. Ma poi si è fatta assillante, assordante la patologica certezza che la vita è rovina. Che si sta, al mondo, come in una lontana notte, nelle case di Longarone: con un’onda immane sul punto di precipitare, e distruggere ogni cosa. Allora, è chiaro, bisogna scappare. E portare via con sé ciò che si ha di più caro. I bambini. Ora dormono. Ma bisogna portarli con sé, via da questo mondo terribile. Gli psichiatri parlano di suicidio allargato, o di omicidio-suicidio "altruistico". È un allucinato, trasfigurato "amore", l’iniezione che addormenta i figli, prima di quella letale. (Bambini, voi venite via con me).
Le maledizioni sul web testimoniano di quanto grande sia l’incomprensione della sofferenza psichica, fra chi non ne è toccato. Non era forse anche conoscendo questo muro, che quella donna taceva? Certa che nessuno avrebbe compreso. Allora ha deciso di tacere, e restare sola. Fino a che la malattia l’ha travolta, e il pensiero segretamente nutrito s’è fatto azione.
Una pietà infinita per quei due bambini, che aspettavano la neve e il Natale. Che forse avevano già in zaino i compiti pronti, per l’indomani. Pietà per il padre, orbato in un modo così atroce. E anche per quella madre annientata, che credeva di poter lottare da sola. Caduta sul confine oscuro tra malattia mentale e disperazione. In quale punto del confine, solo Dio lo sa – il nostro Dio misericordioso.