Visitare i carcerati è un’opera di misericordia, e compierla è virtù. Può darsi che si sentano virtuosi i parlamentari che oggi, vigilia di Ferragosto, visitano le carceri italiane, e quelli che lo faranno domani, secondo programma. Saranno in tanti, forse più di duecento, i politici illustri in visita. E vedranno cose che, come sappiamo già tutti, li faranno trasecolare; e poi diranno parole assennate e gravi che, come sappiamo già tutti, denunceranno il disastro carcerario: i 68mila reclusi ammassati in spazi disumani, i 40 suicidi in sette mesi, le strutture fatiscenti, il personale di custodia sotto organico. E forse, quelli un po’ più sensibili ai problemi delle persone che ai guai delle strutture, diranno qualcosa anche per gli arrestati presunti innocenti in attesa di giudizio quando il giudizio non arriva, per la schiera infinita dei tossicodipendenti, per i malati di epatite e di Hiv, per i segnati da disturbi mentali, e insomma per quest’aria di disperazione infinita che sempre più si va respirando nelle carceri italiane. Lo diranno e saranno commossi.Noi a queste parole staremo attenti, perché le troviamo giuste, e lo diciamo senza ironia. Ma staremo attenti soprattutto al succo dell’incontro, al finale del discorso: se ci sarà o se mancherà un proposito, una promessa concreta, se ci sarà o se mancherà una decisione “politica” per i giorni a venire. Perché il disastro carcerario è anche frutto di una sciagurata insipienza di cui essi devono sentire il peso. Anche a Ferragosto dell’anno scorso vennero in 167 a visitare le carceri, videro cose, dissero parole. S’indignarono, si capisce. Non ricordo che cosa promisero. Dopo un anno quel che è cambiato è cambiato in peggio. Quel che è successo in mezzo è la dichiarazione dello stato di emergenza, una scoperta, o un’autocertificazione di fallimento, del passato gennaio. Oggi dovrebbe dichiararsi l’emergenza aggravata, se servisse a qualcosa dichiarare anziché risolvere (mestiere per il quale politici e governanti sono eletti e pagati).Noi vorremmo che l’incontro dei politici con il pianeta carcere, stavolta, facesse capire non per un giorno ma una volta per tutte che il solo modello penitenziario che può prenotare speranza, oltre che riprendere dignità, è quello che si misura con il percorso di emenda dei condannati. Quanto remota a questo concetto è la visione della violenza massiva sui corpi e sulla psiche. Dice un direttore di carcere che «nelle celle vedo solo sguardi di gente disperata». Questo è il punto. Questo è il punto dal quale prende avvio, in quotidiana e silenziosa fedeltà, un volontariato di assistenza carceraria che conta ormai più di diecimila persone. Non arruolate per Ferragosto, o per qualche virtuosa passerella o intervista, ma per tutto l’anno; dentro uno stile di vita, dentro la sola ragione di dare conforto a chi soffre. A Ferragosto si potrebbe dar loro qualche visibilità, anche se loro non vogliono, anche se loro non ci tengono. Sono loro, in fondo, l’anello che tiene congiunti i reclusi con il mondo degli affetti umani solidali e non ne fa degli espulsi. Molti, fra loro, sono animati da una fede religiosa. E fanno pensare al radicale problema che investiga il senso della pena alla luce del bisogno ultimo di pacificazione e di riconciliazione.Nella stessa quotidianità si iscrive il ministero dei cappellani delle carceri, costruttori di speranza, dentro le storie devastate di rimorso o di straniamento, per dare certezza che esistono braccia di perdono e di rinascita, sempre. Se leggi, strutture, politica, governo prendessero lezione da questa umile sapienza.