Opinioni

IL RICHIAMO IN BENEDETTO XVI. Angeli, una presenza singolare e necessaria

martedì 4 ottobre 2011

La prima preghiera che si impara, l’ultima che si dimentica. Breve e ritmata, perfetta per la memoria di un bambino. Certo, l’invocazione all’angelo custode appartiene all’infanzia di ciascuno di noi, ma non per questo il suo significato è destinato a perdersi quando diventiamo (o crediamo di diventare) adulti. A ribadirlo è stato lo stesso Benedetto XVI, nel passaggio conclusivo dell’Angelus di domenica. Una meditazione quasi interamente dedicata alla presenza silenziosa di Cristo della storia, mistero che rappresenta uno dei temi più ricorrenti e più immediatamente riconoscibili dell’attuale magistero pontificio. Poi, sul finale, quell’accenno a un’altra «singolare presenza»: quella degli angeli custodi appunto, che papa Ratzinger ha definito «ministri della divina premura per ogni uomo».

La teologia angelica è argomento complesso e affascinante, sul quale gravano purtroppo – oltre agli ingiusti sospetti di infantilismo – i pregiudizi derivanti dalle ambiguità di certe riletture new age, che nel transito di millennio hanno goduto di fortuna passeggera, producendo in compenso una confusione abbastanza duratura. L’angelo custode è stato così trasformato in una sorta di «daimon» interiore, in un’accezione più vicina alle fantasmagorie di uno scrittore come Philip Pullman (autore della controversa saga fantasy inaugurata con La bussola d’oro) che non all’originaria dottrina platonica. Benché bistrattati da molta cultura pop, che non di rado li ha raffigurati in vesti degradate o volutamente scandalose, gli angeli non hanno mai smesso di rappresentare un insostituibile punto di riferimento per poeti e pensatori, per artisti e cineasti. Da Rainer Maria Rilke, che all’alba del Novecento intuisce tempestivamente la necessità di convocare gli angeli (anzi, l’Angelo) al cospetto della storia, fino a Wim Wenders, che nel Cielo sopra Berlino descrive la tentazione suprema della rinuncia alla pura essenza spirituale.

L’elenco degli angeli novecenteschi è straordinariamente fitto e variegato, e non soltanto per motivi di mera fascinazione estetica o di regressione all’infanzia. Al contrario, gli angeli che hanno scandito la vicenda del Novecento sono creature drammatiche come il secolo su cui sono stati chiamati a vegliare. Il più celebre è probabilmente l’«angelo della storia» analizzato da Walter Benjamin nel marasma degli anni Trenta, sulla scorta di un non meno celebre dipinto di Paul Klee. Travolto da una tempesta che Benjamin assimila alla furia del progresso, quest’angelo non ha più dominio sul passato e non riesce a contrastare il futuro. È una visione spaventosa, che pure continua a rivelare qualcosa della prossimità di Dio anche nelle ore più buie dell’umanità. Ed è, non a caso, una visione che in anni recenti è stata diversamente modulata da uno scrittore italiano, Antonio Scurati, al quale si deve l’ipotesi di un «angelo della cronaca» ancora più dimesso del suo predecessore benjaminiano, condannato com’è non a contrastare le forze ostili della storia, ma a barcamenarsi nelle minutaglie della quotidianità.

Anche in materia di angeli, dunque, ognuno riconosce i suoi. O, meglio, ognuno di noi è riconosciuto da un angelo particolare, che diventa la sua guida, la sua occasione di senso. Ecco perché, fra tanti, l’angelo che ancora e sempre sentiamo più vicino (e più simile a noi) è quello cantato dal poeta americano Wallace Stevens, presenza alata che si rivela per un istante, quasi di scorcio, dischiudendo il segreto dell’esistenza. Angelo necessario, di nuovo. Come è necessaria la realtà, come è necessaria la salvezza.