Andatura spedita all’estero e affanni in casa. L’incrocio pericoloso dopo le Europee
Agli albori del governo Meloni si prevedeva un cammino deciso in patria e incerto all’estero. Dopo un anno, una verifica oggettiva restituisce l’esito inverso: il primo esecutivo italiano presieduto da una donna ha raggiunto discreti riscontri in campo internazionale, mentre in politica interna si sono registrate defaillance, frenate, titubanze e risultati inferiori alle aspettative elettorali. Anche la tornata elettorale dell’ultimo fine settimana, mentre conferma la drammatica crisi generale della partecipazione, suggerisce come la coalizione che governa il Paese ondeggi tra stallo e lieve flessione, non alimenti particolari passioni politiche e civili ma tenga botta, e vinca, anche grazie alla di-sorganizzazione, al deficit d’identità e in diversi casi (come a Monza) all’autolesionismo del potenziale campo alternativo. Contrariamente alle previsioni, dunque, il bilancio più positivo Giorgia Meloni può vantarlo nella “dimensione esterna”.
La visita a luglio e il sostanziale accreditamento negli Usa di Joe Biden, l’asse privilegiato con la Gran Bretagna di Rishi Sunak, la mano tesa all’Africa, i buoni rapporti con l’India di Modi, la progressiva distensione con i vertici delle istituzioni europee, anche la capacità di superare le iniziali incomprensioni con la Francia di Emmanuel Macron restituiscono il volto di una premier pragmatica che distingue tra negoziati e propaganda. E che nei momenti-chiave ha pure allentato la relazione storica con i sovranisti magiari e polacchi. Decisive le opzioni iniziali, espresse già prima di prendere il timone di Palazzo Chigi: non “scassare i conti” e mantenere il posizionamento euroatlantico dell’Italia con particolare riguardo al conflitto in Ucraina.
Un posizionamento di base con cui sono state via via rimosse le preoccupazioni dei partner su un esecutivo fortemente caratterizzato a destra, spesso preceduto nelle opinioni pubbliche internazionali dalla fama negativa di nostalgie fasciste. La riprova è un’agenda sempre densa di missioni, al punto che la premier, a fine luglio, da Washington ammise: «Devo occuparmi anche di politica interna». Diverso il discorso, appunto, per quanto riguarda il campo nazionale. Nei vari filoni su cui la premier e la maggioranza hanno raccolto il consenso – migrazioni, fisco, “sovranità” in riferimento ai principali dossier economici – sono stati adottati provvedimenti che hanno incassato titoli di giornale di certo superiori alla loro reale efficacia. Sui migranti, in particolare, la premier ha vissuto una vera e propria metamorfosi: via via è apparso più chiaro come le misure sicuritarie fossero soprattutto uno specchietto per le allodole, mentre la vera priorità è diventata, per Meloni, il coinvolgimento dell’Ue e la partnership con l’Africa (insomma, una strategia “tradizionale” in continuità con gli esecutivi precedenti, cui la premier ha saputo dare una cornice più vistosa, quella del “piano Mattei”).
Anche gli annunci di “rivoluzioni” per il Pnrr si sono risolti in modifiche specifiche e negoziate con l’Europa. In politica interna, insomma, il contatto con la realtà è stato duro. Il governo ha faticato e fatica a prendere le misure con quel “possibile” che è diverso dai sogni. E dei contraccolpi ci sono pure sul consenso, coperti però dagli affanni permanenti delle opposizioni. Forse anche per questo motivo persiste uno stallo sulle riforme istituzionali, economiche e della giustizia, sia quelle incardinate nel programma elettorale sia quelle previste nei patti siglati con l’Ue: la sensazione è che al momento, lungi dal rappresentare un nuovo collante politico, possano risultare delle “autopicconate”.
Quando invece c’è stato un ascolto della realtà precedente all’impostazione ideologico-elettorale – ad esempio su Caivano o sulla gestazione per altri – esecutivo e maggioranza hanno sparato meno colpi a salve. Il futuro a breve termine si riassume in un solo tema: la posizione nell’Europa che verrà dopo il voto di giugno 2024. La sensazione è che Meloni voglia entrare nel cuore della nuova architettura politica comunitaria, anche a costo di pagare qualche prezzo elettorale e di allontanarsi ulteriormente dalle destre radicali europee. Una strada che per certi versi pare quasi obbligata. Ma su cui un alleato importante, Matteo Salvini, sembra per nulla convinto. Per questo motivo il dopo-Europee sarà un incrocio pericoloso.