Giustizia. Anche per il penale serve una svolta più civile
La notizia che il nuovo governo, in materia di giustizia, si occuperà principalmente di riforma del processo civile, tralasciando il penale, è una buona notizia. Non certo per scarsa capacità della nuova ministra, grande giurista di profonda cultura che, in un quadro politico diverso, potrebbe farsi levatrice di un vero rinascimento della giustizia italiana. Ma perché il breve tempo residuo di questa legislatura e la radicale diversità di orientamento di alcune delle forze politiche che stanno dando vita al nuovo esecutivo costituiscono, per la Guardasigilli, una gabbia stretta che impedisce la lunga marcia riformatrice di cui la giustizia ha bisogno.
Ritessere una nuova fiducia dei cittadini verso la giustizia è un’impresa per cui servono tempo e pazienza. Che non può essere improvvisata (come accaduto negli ultimi anni) con qualche riformetta che ha come retroterra un generico elenco di buoni propositi. Due sarebbero comunque i piani da non trascurare e da cui, anzi, ripartire (oltre a quello del processo civile, che il governo affronterà): far funzionare meglio il processo penale e rendere meno opaca la vita interna della magistratura, rafforzando la sua indipendenza, ma evitando che essa assuma le forme dell’arrogante separatezza. Il primo piano di intervento riguarda le regole del processo, la sua eccessiva lunghezza e la credibilità delle sentenze emesse dai tribunali; e dunque comporta una rivisitazione delle procedure e delle tante regole disordinatamente affastellatesi negli ultimi decenni. Il secondo piano riguarda l’ordinamento giudiziario, lo statuto dei magistrati, la disciplina delle loro carriere e responsabilità. Piani diversi che, però, si intersecano. Perché quello che chiamiamo 'populismo giudiziario' – il bisogno immediato di una condanna, ricercata non nelle sentenze, ma nella verità delle procure e nelle loro propalazioni giornalistiche; la fase delle indagini utilizzata come anticipazione della pena – è una malattia figlia di frustrazioni alimentate dall’eccessiva durata dei processi.
Se le sentenze definitive arrivassero in tempi più accettabili, l’esclusiva e morbosa attenzione dell’opinione pubblica verso l’operato delle procure sarebbe attenuata, sdrammatizzata. Ma, per tendere a questo risultato, c’è bisogno di un robusto retroterra culturale, che sappia ispirare le scelte che la politica autonomamente dovrà compiere. Questa elaborazione culturale, svincolata dalle contingenze della politica e dagli interessi personali, in questi anni è stata insufficiente. Perché dietro la «modestia etica» della magistratura, di cui ha parlato il presidente Mattarella a proposito della 'vicenda Palamara', c’è anche una modestia culturale che ha tanti padri. Il principale dei quali è l’incapacità di dialogo e il clima asfittico in cui da decenni vivono gli attori del sistema giudiziario. Nessuno di questi attori ha, da solo, la forza morale per uscire da questa crisi culturale. Nessuna «rigenerazione morale», di cui molti parlano con riferimento alla magi-stratura, è possibile rimanendo rinchiusi nella propria torre di avorio. Se ne può uscire soltanto – come più volte questo giornale ha scritto – aprendo una nuova stagione di dialogo tra avvocati, magistrati e università, che, partendo dall’ascolto delle esigenze dei cittadini, sappia fondere l’esperienza sul campo delle prime due categorie con la sapiente e più distaccata riflessione dell’accademia. È un’opera lunga. Ma non ha alternative. Se la nuova Guardasigilli sarà in grado, pensando anche alla prossima legislatura, di porre almeno le fondamenta per questa nuova stagione, compirà un capolavoro. Degno di passare alla storia.