Dagli albori della civiltà per rendere possibili gli scambi commerciali fra le Nazioni, anche se lontane e diverse, la moneta ha costituito l’elemento essenziale e insostituibile. Ma dove trovare il comune denominatore? Agli inizi fu l’oro (parzialmente l’argento), a essere riferimento obbligato. Passati alle banconote, al «monetarismo cartaceo», abbiamo avuto l’egemonia della Gran Bretagna, con la sterlina; alla fine della seconda Guerra Mondiale, coi trattati di Bretton Woods è iniziata l’"era del dollaro".Quanto vale (o forse sarebbe meglio dire «valeva») un dollaro, è un segreto che appartiene alle alchimie dei potenti. Nell’estate del 1944 Harry White, uomo di fiducia del presidente Roosevelt, dichiarò senza mezzi termini: un’oncia d’oro fino (corrispondente a 31,1035 grammi di metallo giallo), equivale a 35 dollari cartacei. Aggiunse: dollar as good as gold. Traduzione: il dollaro è come l’oro. In effetti i grandi banchieri potevano effettuare lo scambio carta-metallo con quel parametro. Ricordato per inciso, Charles De Gaulle ripetutamente lo utilizzò, rimpinguando i forzieri della Banca di Francia. Un quarto di secolo più tardi (agosto 1971), Richard Nixon, con autoritaria e unilaterale decisione, abolì la possibilità di conversione. Motivo? Con le guerre asiatiche, il declino del dollaro era iniziato. A evidenziare il fenomeno, un semplice raffronto: oggi, sui mercati di New York, Londra, Zurigo, per ottenere un’oncia d’oro occorrono ben 1.100 dollari. Problematico spiegare i motivi, complessi anche per le implicazioni politiche, della caduta dal piedistallo del biglietto verde. Gli economisti su un punto almeno concordano: venuta meno l’equiparazione del cartaceo circolante (vieppiù immenso), con le riserve auree che tendono ad assottigliarsi, il valore di una moneta è affidato ad altri parametri. In pratica, esprime la potenza e la credibilità della nazione o dell’insieme di Stati che stanno alle sue spalle. Pertanto il dollaro perde quota in parallelo con la debolezza del «Sistema Usa». Prendono invece forza altre realtà: il rafforzamento dell’euro, l’avanzata dello yuan cinese, l’indebolirsi dello yen giapponese. Il recupero del pur poco apprezzato rublo russo (col suo zoccolo duro di gas e petrolio).Non casualmente il francese Strauss-Kahn, dal vertice del Fondo monetario internazionale, ha lanciato la proposta di una svolta epocale: lavorare a una moneta unica (quanto meno negli interscambi mondiali) che sostituisca un dollaro ormai in affanno. Ciò, in teoria, dovrebbe servire a ridurre gli attuali e sempre più inaccettabili squilibri. Infatti stiamo assistendo a situazioni paradossali.Gli Usa, già nell’era Bush e ora con Obama, con crescente spregiudicatezza monetaria, hanno favorito (complice il governatore della Fed, Ben Bernanke), la subdola svalutazione del dollaro. Cercano in questo modo di esportare di più, sulle spalle «degli altri». In inconfessabile complicità monetaria con i cinesi, in quanto lo yuan di Pechino è legato a doppia corda con gli Usa. Al cambio fisso sommando gli investimenti cinesi in titoli del tesoro americano. Nel loro insieme, gli interscambi denominati in dollari vanno decrescendo, a beneficio di altre valute, in primis euro e per talune aree di Africa e Pacifico, dello yuan. Se la Cina vuole sfruttare l’opportunità del cambio a lei favorevole, gli Usa a loro volta non mollano. Che ne sarebbe del loro prestigio se, ad esempio, si cominciasse a trattare il barile di petrolio, il grano, il cotone, in euro?Bisogna dare atto a Strauss-Kahn di avere vibrato una picconata al feticcio di "re dollaro". Tuttavia, perché si possa, finalmente, arrivare a equilibri monetari più consoni al mutamento degli scenari globali, laddove gli Usa hanno cessato di essere i primi attori assoluti, sarebbe necessaria una coesione politica del Vecchio Continente che si fatica a intravedere. Eppure il momento appare propizio: non per mettere in ulteriore difficoltà l’America, bensì per creare un blocco che sta per contrapporsi, anche sul terreno dell’economia, all’espansionismo cinese. La vera incognita per il domani.