editoriale. L’America Latina dei leader che si «auto-perpetuano»
Nessuno li avrebbe visti a Macondo. I pesciolini d’oro del colonnello Aureliano sarebbero ammuffiti sugli scaffali del laboratorio se un soldato, rimastogli fedele, non si fosse recato ogni mattina a venderli al villaggio. Era questo anonimo militare l’unico collegamento tra l’auto-esule Buendía – in fuga dalla politica – e il resto del mondo. Fu lui dunque, una mattina, a raccontargli che il governo conservatore, con il sostegno dei liberali, stava riformando il calendario affinché ogni presidente restasse un secolo al potere. Quando ha scritto quest’episodio di Cent’anni di solitudine, quasi mezzo secolo fa, Gabriel García Márquez non poteva saperlo. Forse pensava che la schiera dei “leader eterni” terminasse insieme alle feroci dittature dell’epoca. Invece, proprio in pieno boom democratico, a partire dagli anni Novanta, un lungo elenco di governanti ha realizzato l’impossibile impresa dei parlamentari macondiani. Tanto che il variopinto vocabolario latinoamericano ha coniato un termine per definire quest’ossessione presidenziale: “rielezionismo”. E, di recente, i ricercatori di Human Rights Foundation Javier El-Hage e Thor Halvorssen, ispirandosi al genere letterario di cui Márquez è capofila, hanno parlato di «rielezionismo magico».
L’alchimia in questo caso consiste nell’intricato labirinto di motivazioni giuridiche addotte da chi è al potere per giustificare l’ansia di restarvi. La “rielezione a vita” non è qualcosa che si improvvisa: occorre modificare le regole costituzionali create dai “democratizzatori” latinoamericani (dopo la sconfitta dei dittatori-dinosauri) per impedire al governante di turno di perpetuarsi all’infinito al comando. Ci vuole tempo. E determinazione. L’ultimo a riuscirvi, in ordine di tempo, il nicaraguense Daniel Ortega, ha dovuto penare cinque anni. Tanto è trascorso da quando, nel 2009, una sentenza della Corte suprema gli ha consentito di ricandidarsi, in palese violazione della Costituzione. Questa vietava espressamente il secondo mandato consecutivo. Fortunatamente per Ortega, i magistrati del tribunale – vicini al partito di governo – hanno definito tale clausola «discriminatoria» nei confronti del presidente e, dunque, «inapplicabile». La tesi dei giudici era pressappoco la seguente: dato che gli altri funzionari pubblici – sindaci, consiglieri, parlamentari – possono ricandidarsi, perché il capo dello Stato non può? Solo per consentire il principio di alternanza in una carica chiave per la nazione? Un secondo mandato, però, non era sufficiente a Ortega per «realizzare le riforme di cui i nicaraguensi hanno necessità». E, così, il 28 gennaio, i parlamentari del suo partito – il Fronte Sandinista, lo stesso che ha guidato la rivolta contro il potere pluridecennale di Anastasio Somoza – hanno eliminato dalla Carta il limite di mandati consecutivi. Con buona pace dell’opposizione, della Chiesa e degli attivisti per i diritti umani, che hanno avvertito del «rischio di deriva antidemocratica».
Il comandante Ortega – ex guerrigliero convertito, al di là della retorica, al liberismo sfrenato –, però, tira dritto. Lo stesso hanno fatto prima di lui gli alleati dell’asse bolivariano – più o meno vicini alla sinistra radicale – Evo Morales, Rafael Correa e il defunto Hugo Chávez. A quest’ultimo erano occorsi ben due referendum per realizzare il sogno di stabilirsi in pianta stabile al Palazzo di Miraflores. Fu lo stesso caudillo a spiegare dal balcone, il 15 febbraio 2009 – la sera della vittoria del “sì” – la ragione dell’abolizione dei limiti di mandato: «Dio è perpetuo. La patria è perpetua. Affinché la patria sia, però, perpetua deve avere un popolo perpetuo». Dato che il leader è emanazione diretta di quest’ultimo, l’equazione è presto fatta. Le istituzioni e le regole create per preservarle sono – nella visione “rielezionista” – strumenti dell’élite per soggiogare la volontà popolare, incarnata dal “suo” presidente. Non è solo la sinistra bolivariana, però, ad aver ridato smalto al vecchio populismo latinoamericano. Quella che lo scrittore e Nobel Mario Vargas Llosa definisce «l’epidemia rielezionista» non ha connotazione partitica.
A inaugurare la stagione delle ricandidature infinite fu, 21 anni fa, l’argentino Carlos Ménem, esponente dell’ala destra e ultraliberista del peronismo, seguito l’anno dopo in Perù, dal nazionalista conservatore, Alberto Fujimori. Ménem riuscì a eliminare il divieto di rielezione. Il limite di due mandati consecutivi, però, è rimasto. E da allora nemmeno i Kirchner sono riusciti a cancellarlo. In realtà, Néstor e Cristina – che hanno egemonizzato la politica argentina della post-crisi del 2001 – avevano ideato un escamotage per aggirarlo: la candidatura alternata. Prima Néstor, poi Cristina e così via. La morte prematura dell’ex leader, però, nel 2010, ha interrotto il ciclo. Alla moglie è toccato dunque giocarsi la carta della rielezione. La batosta del suo schieramento alle legislative dell’anno scorso, però, ha frustrato le ambizioni della "presidenta" di far riformare la Costituzione per perpetuarsi alla Casa Rosada. Anche ad Álvaro Uribe, l’unico in cent’anni di storia colombiana ad essersi potuto ricandidare al termine del primo incarico, andò male. Uribe, iper-conservatore e alleato di ferro di Washington, sperava che il via libera del Congresso, fosse il preludio di una serie di rielezioni. Si fermò alla seconda: nel 2010 la Corte costituzionale lo escluse categoricamente dalla presidenziali a cui voleva partecipare per la terza volta.
Un punto resta in sospeso. Affinché la “profezia macondiana” si avveri non basta che il presidente abbia il consenso legale alla perenne ricandidatura. È necessario che il popolo lo voti. Proprio la volontà degli elettori è la principale giustificazione dei rielezionisti. Quest’ultima è, però, davvero così libera? Chi ha il potere – specie in contesti in cui corruzione e povertà sono diffuse – gode di mezzi imponenti, primo fra tutti i sussidi ad hoc, per convincere il popolo. Di qui, il limite non nella legge – facilmente modificabile –, ma nella Costituzione, imposto spesso da quegli stessi movimenti anti-dittatoriali che ora vogliono abolirlo. Condannando l’America Latina a restare imprigionata nel realismo – o meglio “rielezionismo” – magico.