Nello stesso giorno in cui l’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, ha incontrato Assad, le fonti dell’opposizione hanno divulgato la notizia che dodici alti ufficiali delle Forze Armate del regime siriano avrebbero defezionato, così contribuendo ad avvalorare un interrogativo che molti – in Siria, nel mondo arabo e in Occidente – pongono con forza: che senso ha cercare ancora un dialogo con un dittatore il cui destino appare ormai irrimediabilmente segnato e che nonostante ciò continua a massacrare senza alcuno scrupolo il suo popolo in rivolta?
Perché mai le stesse Nazioni Unite, che appena pochi giorni fa si sono dette «scioccate» dallo spropositato e inumano livello di violenza della repressione del regime, sembrano ostinarsi a voler riconoscere ad Assad lo status di interlocutore, invece di essere conseguenti alle loro stesse denunce e trattarlo per quel criminale che è?
La risposta è in realtà semplice e illustra drammaticamente tutta la delicatezza della situazione in cui questo sfortunato Paese si trova. Chi sta seguendo la ormai lunga vicenda siriana con attenzione (la rivoluzione, il prossimo 15 marzo entrerà nel suo secondo anno) sa bene che l’attuale segretario generale Ban Ki–moon non ha certo usato perifrasi o giri di parole per condannare con la massima durezza l’operato del regime siriano. Anche nella sua visita a Beirut di qualche settimana fa, cioè nella capitale di un Paese in cui la Siria è tornata a esercitare una pesantissima influenza e il cui governo è imperniato sul movimento di Hezbollah legato a doppio filo a Damasco e Teheran, Ban Ki–moon ha dichiarato in un’occasione pubblica e solenne che «i regimi che massacrano il proprio popolo perdono qualunque legittimità». Negli ultimi mesi, il segretario ha dispiegato ogni sforzo suo personale e della diplomazia del Palazzo di Vetro per cercare di ottenere un pronunciamento di aperta condanna e la conseguente adozione di sanzioni nei confronti della Siria di Assad. Con scarsi risultati, però.
La Russia e la Cina hanno ribadito, anche dopo che l’Assemblea Generale si era espressa in tal senso, di essere pronta a esercitare il diritto di veto verso qualunque risoluzione del Consiglio di Sicurezza ostile alla Siria e nulla, a cominciare dall’esito delle elezioni presidenziali russe, lascia intravedere un possibile mutamento nelle posizioni di Mosca e Pechino.
Non solo. Appena poche ore fa, l’amministrazione americana ha ribadito che l’ipotesi di un suo intervento militare nella regione non è da prendere in considerazione neppure nelle forme di un appoggio a un’azione multilaterale intrapresa sotto l’egida della Lega Araba. Anche perché il presidente Obama ha già la sua brutta gatta da pelare tra la sfida nucleare iraniana e il tentativo di tenere a bada il riottoso alleato israeliano, che da qui a novembre potrebbe esser tentato di trarre qualche vantaggio dalla campagna elettorale per la presidenza americana. La stessa Lega araba, peraltro, dopo i segnali di attivismo e interventismo dei mesi scorsi, sembra essere tornata al consueto e più prudente (o inconcludente) atteggiamento che le è consono.
In queste condizioni lo scenario che sembra farsi più probabile per la Siria non è quello di tipo libico – con l’abbattimento di un regime tirannico il cui esito viene accelerato dal decisivo intervento militare esterno –, piuttosto quello di una guerra civile prolungata in cui la caduta del regime avverrà a un costo altissimo, senza peraltro che ciò sia in grado di porre fine al terrore, alle vendette e a una scia di sangue già oggi spaventosa.
Nonostante fatti come l’insensato bombardamento di Gaza da parte israeliana avvenuto proprio ieri costituiscano un oggettivo aiuto al regime, favorendo il suo gioco di rivendicare il ruolo di Paese in prima linea contro il “comune nemico sionista”, sono molto pochi infatti a pensare che la dittatura degli Assad possa sopravvivere.
Nell’impossibilità di un più diretto coinvolgimento della comunità internazionale nella soluzione della crisi, ciò che Ban Ki–moon sta quindi cercando di ottenere è quantomeno evitare che alla fase attuale di violenta quanto inutile repressione da parte del regime faccia seguito una guerra civile sempre più barbara e aspra, in cui tutti quelli ritenuti – a torto o a ragione – coinvolti nel sostegno all’assadismo finiscano con l’essere oggetto di vendette arbitrarie, a cominciare dalle minoranze religiose di cui la Siria è ricca. Non si tratta di riconoscere ad Assad lo status di interlocutore nella soluzione politica del dopo–Assad; ma di convincerlo dell’ineluttabilità della transizione e della possibilità di rendere il processo e il suo esito scontato il meno sanguinario possibile. Un tentativo forse disperato, ma mai quanto l’assistere inerti al prossimo scatenarsi di una violenza sempre più cieca e feroce.