Perché no l'adozione da parte di coppie omosessuali Nel dibattito di questi giorni un punto molto caldo è rappresentato dalla proposta di legge che prevede l’adozione da parte di coppie omosessuali, sia pure ristretta alla
stepchild adoption, una possibilità che sarebbe sancita non dal giudice ma dal legislatore. Eppure l’importanza e l’insostituibilità delle figure genitoriali del padre e della madre dovrebbe essere fuori discussione. Per la crescita del bambino sono importanti le relazioni affettive che si possono assicurare, ma per la formazione della sua identità di genere non bastano. Il confronto con la differenza sessuale resta fondamentale e il padre e la madre sono i primi riferimenti per il bambino. Situazioni particolari di bambini a cui manca una delle due figure genitoriali ci saranno sempre, ma perché crearle con la legge? Ciò avverrebbe se venisse prevista l’adozione da parte di coppie omosessuali. Inoltre, essendo di fatto abbinata alla maternità surrogata, comunque realizzata, si aggiunge l’impossibilità di conoscere le proprie origini, un diritto del minore che viene oggi riaffermato per la sua importanza sul piano psicologico. In questi giorni si sono sentite voci da parte di esponenti del mondo scientifico e politico secondo le quali non vi sarebbero differenze tra bambini cresciuti con coppie omogenitoriali e bambini di coppie eterogenitoriali. Purtroppo anche la Corte di Cassazione, ha affermato, in relazione alle riserve e agli allarmi da più parti avanzati contro l’affidamento di bambini a coppie omosessuali, «che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza, ma il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale» (11 gennaio 2013). Ma queste asserzioni non corrispondono alla verità delle cose. Ricerche longitudinali su bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali ed eterogenitoriali, eseguite negli Stati Uniti, dove è praticata la omogenitorialità da qualche tempo, danno risultati ancora non chiari, discutibili dal punto di vista metodologico e comunque non estensibili nel lungo termine. (cf. V. Cigoli e E.Scabini, Vita e Pensiero, 3, 2014). In questo campo, si ha l’impressione che pur di raggiungere un certo scopo ci si muova con molta disinvoltura, con la prevalente preoccupazione di gratificare le persone adulte, mettendo in secondo piano, anche in questo caso, come in altri, le esigenze educative dei minori. Nel campo della ecologia un principio che viene invocato (si tratti di inquinamento o di organismi transgenici) è quello di precauzione: quando anche non vi fossero prove sicure sugli effetti negativi di certi interventi sulla natura, ci si dovrebbe astenere dal compierli. Questo principio viene riconosciuto come un principioguida ed è stato applicato in varie occasioni. Ora, se il principio di precauzione è ritenuto valido e viene applicato per la tutela dell’ambiente e della salute fisica, potrà esser messo da parte nella educazione, quando è in gioco la formazione della persona? È una osservazione che Michele Sesta ha avanzato ( Vita e Pensiero. Ricerche. Diritto, 2015) a proposito della citata posizione della Corte di Cassazione rilevando che «il principio di precauzione richiede, in casi come quello in esame, la massima prudenza per evitare vere e proprie sperimentazioni su quegli esseri umani che il diritto proclama titolari di interessi superiori, sovraordinati a quelli degli adulti».