Una delle questioni che dovremmo porre sempre più al centro del dibattito economico e sociale è quella demografica, cui è legato l’enorme tema delle pensioni, e del lavoro. In particolare, è urgente una riflessione seria e pubblica sui cambiamenti radicali che sta subendo la vecchiaia, cioè la condizione umana negli ultimi anni della vita, quando la vita subisce una svolta, si capisce che si è entrati nell’ultima fase, e si è vicini al suo termine. Una questione urgente anche perché la rivoluzione della longevità è tra le più grandi e di portata epocale che la storia umana abbia conosciuto. Nel giro di pochi decenni l’umanità (almeno quella che vive in condizioni decenti) ha rubato alla morte, o guadagnato alla vita, una quantità di anni (almeno 20, e quasi 30 in alcuni Paesi), pari a quelli guadagnati tra il neolitico e il dopoguerra. Qualcosa di straordinario, da lasciare senza fiato. E questa rivoluzione non ha solo mandato in tilt lo Stato sociale (la crisi del debito è dovuta anche a questo), ma pone domande difficili su come vivere non tanto una vita sempre più lunga, ma una vecchiaia sempre più lunga: oggi qualità della vita è anche e soprattutto qualità della vecchiaia.Chi conosce da vicino e vive con persone anziane, vede immediatamente che invecchiare nella nostra epoca non è facile, anzi è molto difficile, soprattutto nell’ultima fase. In una cultura centrata sulla giovinezza, l’efficienza, il corpo, l’apparire, l’invecchiamento non ha diritto di cittadinanza, e lo avrà sempre meno, se non invertiamo decisamente la rotta. Nella cultura tradizionale che abbiamo da poco messo alle nostre spalle, invecchiare era un’esperienza diversa, certamente più breve e non per tutti. Un’esperienza complessivamente migliore. Per almeno tre motivi. Innanzitutto il vecchio, in un mondo dove la cultura è soprattutto cumulativa, è detentore di beni comuni che gli vengono riconosciuti dalla comunità, che si chiamano saggezza, esperienza, conoscenza del passato, sapienza, risorse essenziali in quelle società. Quindi l’invecchiamento era al tempo stesso "un di meno" e "un di più", individuale e collettivo, poiché mentre il corpo degradava (più di oggi), si arricchiva lo spirito e l’anima della persona e della comunità. Il secondo motivo era la visione religiosa del mondo: avvicinarsi alla morte sapendo che è solo un passaggio verso un’altra vita, probabilmente migliore, è ben diverso che morire in una cultura dominante come la nostra dove l’avvicinarsi della morte è sempre più l’avvicinarci al nulla (mi impressionano molto i tanti suicidi di vecchi, che dicono qualcosa di nuovo, poiché tradizionalmente si suicidavano i giovani). Infine, la famiglia: la grande gioia degli anziani è stata sempre la discendenza, vedere che la vita propria stava terminando ma c’era una parte di sé che invece cresceva e continuava, e che dava senso a quel declino. Figlie, figli e nipoti che, nelle tradizioni medio-orientali, circondavano il letto del vecchio morente, a dire che la morte era anche vita e futuro.Queste tre ragioni di buona vecchiaia stanno inesorabilmente tramontando dal nostro orizzonte: troppa gente invecchia sempre più senza essere stimata, spesso da sola in case di riposo, e a volte senza fede. Ci sarebbe poi molto da dire dalla prospettiva femminile. Molte delle attuali donne anziane, soprattutto di ceto medio e basso, sono delle vere "esodate della cura": da giovani hanno offerto cura a genitori, parenti e figli, rinunciando spesso a una loro carriera e fioritura civile, e ora, per la prima volta nella nostra storia, si trovano in grande credito di cura, poiché, a differenze delle loro mamme, non la ricevono più, o molto meno, da figli e nipoti, e muoiono consumate dalla malinconia in tanti luoghi tristi.Che fare allora per invertire la rotta? Innanzitutto occorre gestire meglio gli anni dell’invecchiamento cosiddetto "attivo": c’è già, ma sempre più ci sarà, una lunga fase della vita che si collocherà tra la fine del posto di lavoro e la fine della vita attiva di una persona. Ieri come oggi, una persona vive pienamente, prima o dopo la pensione, quando è inserita all’interno di reti sociali nelle quali cresce, coltiva la propria socialità, ed è utile a qualcuno e per qualcosa.Si potrebbe immaginare una sorta di servizio civile post-lavoro (analogo a quello pre-lavoro dei giovani), ovviamente più lungo, dove a tutti gli anziani che possono e vogliono viene offerta una possibilità istituzionale e organizzata di volontariato. Oggi tanti anziani fanno volontariato, perché hanno in abbondanza il bene sempre più scarso: il tempo. Ma ci sono regioni, territori, fasce di popolazione poco o punto raggiunte dalle associazioni spontanee di volontariato: dovremmo fare in modo che la società civile e le istituzioni si organizzino in modo da rendere universale la possibilità di continuare a vivere una cittadinanza attiva anche nel tempo della pensione. Credo che ci siano poche esperienze umane più belle di stare a fianco a un vecchio che fa vero volontariato – il volontariato deve essere vero, cioè utile alla città e a chi lo fa, e non intrattenimento, perché altrimenti oltre a non durare non è degno. Quella dimensione comunitaria e quella discendenza che le famiglie frammentate e a volte assenti non riescono ad offrire più al vecchio, occorre che sia svolta oggi anche dalla comunità civile, dai rapporti di prossimità, da nuove forme di vicinato (quanti condomini e quartieri se si organizzassero potrebbero valorizzare la presenza di anziani in varie forme di assistenza e di cura?).Infine, c’è un urgente bisogno di nuovi "carismi" che curino questa nuova forma di povertà, quella di chi invecchia in un mondo di solitudini e di smarrimento spirituale; carismi che ci facciano vedere, anche costruendo nuovi luoghi, lavori e nuove case, una nuova bellezza di questa tarda età della vita, la rendano più sostenibile e felice, e generatrice anche di bene comune. Se vuoi capire se una società è saggia, guarda come invecchia.