Cercatori e trovatori. Allargarci alla totalità dei fratelli, prossimi di chi è lontano
Moltitudine
Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri, stiamo andando in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Ogni domenica il celebre teologo, firma cara ai lettori di “Avvenire”, ci conduce alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti» attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori» che vogliono attraversare la vita con ritrovata consapevolezza.
“Moltitudine” è una parola che mi piace molto, anche se ha finito per rivestire l’ombra di una cattiva fama. I moderni studi di psicologia della folla e di sociologia delle masse ci hanno messo giustamente in guardia dalle ambivalenze delle pulsioni collettive che ci possono devastare. Ma hanno forse sottaciuto la segreta potenza degli affetti anonimi che ci tengono in vita: ben oltre i limiti della presuntuosa autoreferenzialità dell’io, ben oltre il perfetto rispecchiamento della coppia di io-tu.
Crescere e “moltiplicarsi” è il comandamento che sigilla il vincolo originario della coppia. Ci dev’essere un segreto nella “moltitudine”: un segreto della felicità del Dio creatore, un segreto della vita destinata alla creatura. L’incessante processione degli umani abitatori della terra, che secondo l’Apocalisse allieta di adorazione e di vita il popolo ammesso ad abitare il cielo, è fatta da una piccola manciata di conosciuti e da una sterminata moltitudine di sconosciuti. Il “totale umano” della creatura di Dio si incrementa: fino a quando Dio non ha coronato il suo sogno di abitare con la moltitudine degli umani che devono venire al mondo. Non sappiamo in quale tempo “dell’orologio”. (Gesù stesso dice di non poterne fissare “il giorno e l’ora”).
Di certo, il totale umano della creazione non si consuma, non finisce nel buco del lavandino della storia perché il tempo dell’orologio è scaduto. La fede dice che la totalità dei viventi si trasforma e si trasfigura: ma nessuno finisce in niente. Eravamo forse più sensibili, un tempo, alla bellezza di questa enormità della moltitudine umana, della quale veniamo a far parte con la nascita, che è per sempre? “C’era una volta” l’intercessione affettuosa per i defunti, che cercava il modo di intenerire il Cielo. “C’era una volta” la protezione amorevole dei santi, che incessantemente mandava segni alla Terra. La vita della Terra e la vita del Cielo rimanevano in reciproca fibrillazione di affetti indimenticati e di intercessione indomabile. La moltitudine umana, infine, non perdeva il contatto con sé stessa.
Le volte delle chiese barocche erano “popolatissime” (ora sono geometrie di un assoluto che gode di essere disabitato, per esibire la purezza del suo vuoto). Le vetrate delle storie bibliche e dei santi patroni non erano tanto per avere qualcosa da guardare, ma soprattuto per avere qualcuno che ti guarda. Il popolo colorato di vita dei sovra-terreni ti guardava le spalle, letteralmente (ora qualche patetica statua di santo ingessato tiene luogo della moltitudine). Se ti abitui a pensare che la generazione presente è tutto il mondo che ti rimane e la generazione futura è semplicemente quella che succede alla tua scomparsa dalla Terra, non ti viene la malinconia? Se invece ti concentri, anche solo per un istante, sul fatto che anche tu appartieni a una enorme moltitudine dell’umano, in movimento incessante verso una destinazione solidale, non ti si riapre anche il Cielo?
Se i poveri, i feriti, gli abbandonati, vengono visitati dagli sconosciuti che si rendono noti, dai lontani che si fanno prossimi, dagli estranei che si fanno fratelli e sorelle, non senti struggentemente più vicina la convinzione che nessuno di noi è abbandonata da Dio? Se siamo capaci di riconciliarci con il mistero della moltitudine umana, riconosceremo i segni della nostra speranza. La gioia per il pericolo scampato da una comunità di cui non conosciamo nessuno, la commozione per la fine impensata di una guerra i cui morti ci sono anonimi, l’entusiasmo per il riscatto di una popolazione avvilita in cui non abbiamo neanche un parente. Non è degno dell’umano, che è comune, pensare che l’amore per la prossimità umana possa trovare la sua strada soltanto là dove possiamo mettere a fuoco l’identità riconosciuta dell’io (o la coppia riuscita di io-tu). In questo modo, la selezione sacrificale dell’umano è annunciata. (E anche la tua, anonimo per la moltitudine). Che cos’è questa lagna che siamo “troppi”? (e se cominciasse da te il “superfluo”?) Dio ama la moltitudine umana: e proprio per questo è sicuro che non si perde nessuna singolarità e nessuna reciprocità. Persino quando lui stesso non è riconosciuto (“Quando ti abbiamo visto, Signore?”).
Gesù aveva compassione delle “folle”. Possiamo riabilitare la vitalità dell’amore per la moltitudine umana? Possiamo smettere di parlare delle “masse di diseredatati”, delle “pazze folle”, delle “moltitudini anonime”, come se fossero l’unica e inevitabile rappresentazione della moltitudine? (I ragazzi, anche senza saperlo, ne sanno più di noi, su questo argomento) Forse è questo che ha in mente papa Francesco, quando parla del “mistero del popolo”, che non è un mistero politico, né culturale: ma propriamente “mistico”. Invece di pretendere di far entrare il totale umano nella nostra identità e nella nostra reciprocità (che è comunque impossibile) non potremmo aprire allegramente la identità e relazione alla moltitudine umana? Non potremmo ritrovare l’umiltà e l’orgoglio di sentirci parte della moltitudine – fatta per lo più di sconosciuti – che entra nella vita per non uscirne mai più? Che è destinata all’intimità di Dio, anche quando non ne sa niente?
La bellissima logica della rivelazione evangelica, che intreccia, senza privilegio alcuno, l’amore fraterno dei Discepoli che Gesù sceglie e l’amore per la Folla che Dio ama, potrebbe restituirci ad una passione (quasi) spenta? Vi faccio solo un paio di esempi delle mosse che potrebbero aprirci al fervore della sussidiarietà della vita, la quale moltiplica le forze proprio quando condivide le debolezze. (Voi ne troverete sicuramente di migliori). Di gran moda sembra essere diventata l’opzione (anche “laica”) di sperimentare qualche breve passaggio in un contesto “monastico” (in fuga dalla “pazza folla”, come si dice) per ritrovare sé stessi (ed eventualmente la felice “intimità di coppia”). Benissimo, naturalmente. Si potrebbe indirizzare questo esercizio spirituale alla riconquista del proprio struggimento per il totale umano, che ha la forma della moltitudine alla quale siamo indissolubilmente connessi, e nella quale siamo amati da Dio? Un bel ritiro di digiuno dell’io e di commozione per la moltitudine. Ogni singolo umano smarrisce il senso del suo stesso progetto, quando la moltitudine evapora nell’indistinto senza amore. Non è forse questo che ci sta rendendo litigiosi e depressi? Se non c’è un Dio dell’amore per la moltitudine, chiunque appare sacrificabile. La pace religiosa con il Dio dell’amore per la moltitudine umana, anche se non sei credente, smaschera le divinità tribali dei sacrifici umani.
La nostra parrocchia resiste, anche se ridotta ai minimi termini, come felice risorsa simbolica dell’evidenza di un cristianesimo non selettivo, non professionale, “di popolo”. Benissimo. Però, in un’Europa dove ormai le chiese si vendono (l’onda arriverà anche in Italia) non dovrebbe essere normale – io lo renderei obbligatorio – attivare sistematicamente un “gemellaggio paolino” delle nostre comunità, ancora dotate di mezzi, con qualche comunità di discepoli, coraggiosa e provata oltre ogni limite, che abita parti della moltitudine umana che ci sono lontane e sconosciute? Di che cosa vogliamo vivere, noi, dei compagnucci della parrocchietta (che ormai hanno i capelli bianchi) oppure dell’irradiazione della tenacia evangelica delle passioni di Dio, fino agli estremi confini della terra? C’è forse un altro modo per schiodarci dalla nostra patetica malinconia del “nido vuoto”, perché i nostri “figli coccoli” ci abbandonano?
L’improbabile testimonianza di una salvezza che riguarda la moltitudine umana, che in Gesù intenerisce Dio fin da prima della creazione del mondo, ci illumina di immenso. È bellissimo far parte della folla di Dio. E non cedere sulle vibrazioni della speranza che – anche anonimamente, come fa lo Spirito – rinsaldano il legame di ogni generazione bambina con la generazione eterna del Figlio, destinata ad una moltitudine di fratelli e sorelle.