Opinioni

Analisi. Cittadinanza nella Chiesa e nella società: gli immigrati vanno coinvolti

Maurizio Ambrosini lunedì 8 luglio 2024

La cinquantesima Settimana sociale ha cambiato intestazione: non più “dei cattolici italiani”, ma “dei cattolici in Italia”. Non si tratta di un cambiamento nominalistico: significa riconoscere che la popolazione che vive nel Paese non è composta soltanto di cittadini italiani, ma di un’umanità multietnica, con circa 5,3 milioni di residenti stranieri, e sempre più mescolata, per via di matrimoni misti, naturalizzazioni, nuove generazioni che crescono in Italia (872.000 studenti nelle scuole). Anche la Chiesa cattolica in Italia ha assunto un profilo sociografico più articolato e meno prevedibile: non solo per la presenza di religiose, religiosi e preti che arrivano da lontano, ma anche di una componente sempre più radicata di cattolici con origini immigrate, stimati in circa 830.000 (dossier Idos 2023). Una settimana sociale dedicata alla questione della partecipazione democratica non può mancare d’interrogarsi sull’allargamento dei confini della comunità dei partecipanti: su come promuovere il protagonismo di quanti si trovano legalmente esclusi dall’esercizio del diritto di voto. È in gioco con ogni evidenza una legge sulla cittadinanza che guarda al passato, all’Italia degli emigranti, anziché costruire l’Italia del futuro.

Per fortuna tuttavia la partecipazione democratica non coincide con il diritto di voto. Sia i cittadini a pieno titolo, sia e a maggior ragione quanti non lo sono, hanno altri canali per esprimere la loro voce. Uno, molto utilizzato dagli immigrati, è la partecipazione sindacale. Sono più di un milione gli immigrati iscritti a un’organizzazione dei lavoratori. Molti per ottenere protezione legale e sostegno nelle intricate procedure burocratiche a cui sono sottoposti, ma in misura crescente anche accedendo a ruoli di delegati e responsabili sindacali locali e nazionali. Questo si verifica soprattutto nei settori in cui si concentra maggiormente la presenza dei lavoratori immigrati (2,5 milioni circa, oltre il 10% dell’occupazione complessiva): edilizia, agro-industria, servizi privati.

Un altro canale partecipativo è quello associativo: persone individualmente escluse dal voto possono organizzarsi collettivamente in associazioni e movimenti, acquisendo la possibilità d’interloquire con amministrazioni locali, rappresentanti politici, mass-media, altri soggetti della società civile. Potendo così esprimere domande, sollecitare iniziative, formulare proposte, collaborare con le istituzioni. Pensiamo per esempio alle iniziative delle associazioni degli immigrati durante la pandemia, alle attività di sensibilizzazione e di mediazione che hanno realizzato, alle collette con cui hanno raccolto denaro per ospedali e municipalità italiane, con una generosità sorprendente (centro studi Medì-CSVnet). Ma, così come questa mobilitazione è stata presto dimenticata, in generale in Italia l’associazionismo immigrato riceve ancora scarso riconoscimento e sostegno. Incontra una barriera invisibile che dovremmo porre in questione.

Dovremmo infine interrogarci su quanta voce abbiano gli immigrati all’interno della Chiesa cattolica italiana, non solo come beneficiari di azioni di sostegno, numerose e capillari, ma come protagonisti attivi della compagine ecclesiale. Qui si verifica una dicotomia: gli immigrati cattolici sono molto attivi nelle loro comunità, a base etnica, nazionale e linguistica, mentre sono raramente visibili nelle comunità parrocchiali e diocesane. A volte i movimenti riescono ad attrarne alcuni, ma non è la regola. Il meticciato in ambito ecclesiale non si è ancora affermato.

La grande impresa democratica “di allargare i paletti della tenda” (cardinal Martini) della partecipazione si articola dunque su diversi livelli: quello della cittadinanza legale, quello della partecipazione sociale, quello del protagonismo ecclesiale. Su tutti abbiamo bisogno di nuove sensibilità e nuove iniziative.