Opinioni

La ricerca. L'Italia amministrata da ex giovani: al timone del declino

Pietro Saccò giovedì 23 agosto 2018

Nessuno sarà rimasto troppo sorpreso nel leggere i risultati dell’indagine di Unioncamere-InfoCamere sugli amministratori delle aziende italiane di cui "Avvenire" ha dato conto. Le persone che guidano le nostre imprese, dicono i dati, sono sempre più vecchie: negli ultimi cinque anni sono aumentati gli amministratori ultra 50enni e quelli con più di 70 anni, mentre sono drasticamente diminuiti i capi azienda con meno di 50 anni e sono calati anche quelli under 30 (che comunque sono pochissimi, solo il 3,2% del totale contro il 61% degli ultra 50enni).

Sono numeri che non sorprendono più, perché questa è l’Italia alla quale ci siamo pian piano abituati negli anni, senza mai davvero reagire: una società costruita più o meno consapevolmente su misura delle esigenze della generazione dei nati negli anni del boom economico. La generazione che nei suoi trent’anni ha vissuto la mirabolante crescita economica degli anni 80 del Novecento e poi si è dedicata soprattutto a difendere quello che aveva ottenuto: un posto di lavoro sicuro, la tranquilla certezza di una pensione, una casa acquistata a prezzi abbordabili.

Qualcuno ha avuto la scrivania da capo azienda e difende anche quella. Ma tutto ha un prezzo. Il conto della serena vecchiaia dei baby boomers italiani lo pagano le generazioni che sono venute dopo, che si sentono un po’ come gli invitati arrivati a una festa quando il proprietario sta iniziando a sparecchiare.

Sono storture note e l’Italia non è l’unico Paese a soffrire di una crescente disparità generazionale. Parliamo da oltre un decennio dell’allarme della disoccupazione giovanile, contro la quale nessuno è riuscito a ottenere significativi miglioramenti. I dati di Unioncamere ci ricordano ora che oltre a quello dei giovani senza lavoro c’è un altro problema, in prospettiva ancora più insidioso: sempre più aziende sono guidate da anziani. Sono tante le caratteristiche che fanno di una persona un buon dirigente. Tra queste ci sono sicuramente anche l’esperienza e la saggezza, qualità che maturano con gli anni.

Ma è soprattutto la capacità di avere uno sguardo nuovo sulla società e su ciò che accade quello che fa di un dirigente un grande capitano d’azienda. È tipica dei dirigenti più giovani la capacità di intuire che un’impresa può abbandonare la routine su cui si è accomodata e migliorare il modo in cui fa quello che ha sempre fatto. Sono questi dirigenti giovani a conoscere i nuovi clienti, come i trentenni di oggi, che hanno idee ed esigenze spesso incomprensibili per il dirigente sessantenne o settantenne.

La Silicon Valley non è il mondo, ma è lì che negli ultimi decenni sono nate le aziende più disruptive, cioè dirompenti, capaci di scombussolare equilibri consolidati.

Nel 2008, quando si capiva che la Facebook del 24enne Mark Zuckerberg avrebbe conquistato il trono dell’economia del Web, Bill Gates a 52 anni lasciava la guida di Microsoft per dedicarsi alla filantropia. L’informatico che ha inventato il sistema operativo su cui girano quasi tutti i computer del mondo aveva capito di avere già dato il suo contributo all’azienda. Per lui era il momento di fare altro. In Italia questo passaggio non c’è mai. I quarantenni degli anni 90 sono ancora alla guida di molte delle nostre imprese quando tanti loro colleghi stranieri si sono ritirati per godersi gli stipendi incassati negli anni in cui sul biglietto da visita mostravano la scritta Ceo.

Rinunciando ad affidare le sue imprese ai giovani (e nell’assurda situazione dell’Italia di oggi è ancora "giovane" un dirigente di 45 anni) ci stiamo negando l’opportunità di rinfrescare le aziende e rilanciarle con idee nuove. L’economia mondiale si evolve sotto gli occhi stanchi di non pochi nostri amministratori delegati sessantenni, che vedono allontanarsi gli anni della loro creatività manageriale e assistono al crollo delle loro vecchie certezze di business.

Non saranno dirigenti dai successi sbiaditi dal tempo a segnare quelle svolte d’impresa capaci di creare nuova ricchezza e con essa l’esigenza di portare a bordo forze giovani che accompagnino l’azienda nel futuro. Un Paese di amministratori attempati faticherà sempre di più ad avere quelle idee che creano opportunità di lavoro per i suoi giovani. Se un giovane nemmeno entra in azienda da dipendente, come può conoscerla, capirla, crescervi dentro e a un certo punto guidarla? È una spirale di declino dalla quale è difficile uscire. Riconoscere di esserci dentro sarebbe già un primo passo.