Donne al potere. Parla Donatella Sciuto, prima rettrice al Politecnico in 160 anni
Donatella Sciuto, prima donna rettrice del Politecnico in 160 anni
Tra la bambina che giocava a calcio coi maschi «in un campetto scombinato di Ispra» e la prima donna a sedere sulla poltrona di rettrice del Politecnico di Milano in 160 anni di storia dell’ateneo c’è la storia di una vita «normale», lontana da discriminazioni e battaglie per l’affermazione professionale, che Donatella Sciuto, 61 anni, racconta a tratti con un filo di imbarazzo: «normale» per lei, negli anni Ottanta, essere tra le tre iscritte di sesso femminile sulle oltre 300 matricole alla facoltà di Ingegneria elettronica, «normale» laurearsi ad appena 22 anni (aggiudicandosi anche in questo caso il titolo della più giovane ad averlo fatto nella storia della prestigiosa università), «normale» ciò che è venuto dopo, i dottorati, i concorsi vinti, le cattedre e infine la chiamata a occupare l’ufficio di più importante di piazza Leonardo, coi muri e i mobili di design bianchissimi, le finestre affacciate sui bei cortili che pullulano di aspiranti ingegneri.
Rettrice, incominciamo dall’inizio, da quel campetto di calcio. Cosa sognava di diventare da grande?
Sognavo di fare sport, ma non ero particolarmente portata (sorride, ndr). Mio padre era ingegnere all’Euratom, fin da piccola mi ha insegnato a farmi domande, e io sono cresciuta così, curiosa, piena di domande su come funzionassero le cose. Ho frequentato la Scuola europea secondo lo schema francese, mi sono diplomata a 17 anni e a quel punto la cosa più naturale è stata quella di indirizzare la mia indole agli studi scientifici: per capire le cose, e per capirne sempre di più, mi sono iscritta a Ingegneria elettronica.
Poche donne al Politecnico a quei tempi…
Eravamo 3 su oltre 300 in aula. Ma non mi pesava, all’epoca questo non era un tema. Non ricordo per altro di avere mai avuto difficoltà legate al fatto che fossi donna, o di aver percepito discriminazioni, almeno tra gli studenti. Coi docenti, in qualche caso, sì, c’erano dei pregiudizi. Un atteggiamento meno accogliente forse, ecco. Niente che mi abbia creato particolari disagi. Il mio problema, piuttosto, era l’età: ero sempre “troppo giovane”, per tutto e per tutti. Mi laureai a 22 anni, ma solo perché ero uscita prima dalle superiori.
E poi?
E poi dovevo decidere cosa fare. Non volevo entrare in azienda, con orari e cartellini, desideravo essere libera nel mio lavoro. Decisi di proseguire gli studi con un dottorato in Electrical and computer engineering all’Università del Colorado, negli Stati Uniti, con una borsa di studio, ma arrivò una chiamata da Brescia per un concorso di ricerca che vinsi. La mia fortuna fu che mi lasciarono proseguire il dottorato. Ricevetti diverse offerte negli Usa, ma decisi di tornare in Italia. Poi iniziò il mio percorso a Brescia, legato ai sistemi di progettazione dei circuiti digitali, infine il passaggio al Politecnico nel ’92, prima come professore associato e poi come ordinario dal 2000 .
Com’è arrivata la nomina a rettrice? È una leadership che ha desiderato e per cui ha lottato?
Nient’affatto a dire il vero. Non era nei miei piani. Nel 2009 il prorettore Giovanni Azzone mi chiamò e mi chiese di lavorare con lui alla sua candidatura. Gli dissi di sì, l’anno dopo vinse e divenne rettore. A quel punto mi chiese di proseguire nella collaborazione diventando io prorettrice delegata di ateneo: all’epoca non avevo la benché minima idea di che cosa volesse dire, non avevo mai avuto incarichi organizzativi di ateneo. Ed è stato lì, in quel ruolo, che ho cominciato a occuparmi anche di questioni di genere: commissionai le prime analisi sui numeri, quante matricole donne e quante uomini. La percentuale delle studentesse era disastrosa, sebbene fosse migliorata rispetto a vent’anni prima. Da lì nacque l’idea di un Osservatorio, poi nel 2018 - quando rettore era Ferruccio Resta e io fui confermata nel mio ruolo - del “Pop”, le “Pari opportunità Politecniche”.
Di cosa si tratta?
Di un gruppo di lavoro focalizzato sulle pari opportunità, tutte. Di genere certo, ma anche culturali, religiose, economiche, psicologiche. L’idea era quella di ridurre il divario in ognuno di questi ambiti attraverso iniziative mirate di supporto, che via via abbiamo strutturato. Fu un punto di svolta. Oggi, tanto per fare un esempio, del servizio di counselling usufruiscono oltre mille studenti all’anno. Abbiamo percorsi specifici dedicati agli studenti stranieri, a quelli con disabi-lità, alle persone Lgbt.
Perché per le donne è così difficile affrontare un percorso di studi a indirizzo scientifico?
È una domanda che mi sono fatta spesso. La risposta che ho trovato, incontrando tanti studenti, è che le ragazze si chiedono molto più dei loro colleghi maschi che impatto avranno gli studi nel lavoro che faranno. Non a caso all’interno dell’ateneo abbiamo percentuali più alte di iscrizioni femminili in ambito di Ingegneria biomedica, ma anche in Architettura, dove arriviamo al 55%, e in Design, al 57%. A Ingegneria, e Ingegneria elettronica in particolare, i numeri restano ancora bassi: ora siamo attorno al 12% di iscritte donne. È quello su cui ci stiamo concentrando, trasformando per esempio molte matricole in “ambasciatrici” della materia con corsi di storytelling o offrendo borse di studio alle studentesse delle scuole superiori per farle partecipare alle attività dell’ateneo: l’ingegneria elettronica e l’ingegneria informatica non sono mestieri da nerd, oggi viviamo in un mondo governato dai sistemi informatici e la preparazione in questo ambito è la chiave per incidere in tutto ciò che ci circonda.
Anche continuando i percorsi di studio per le ragazze è tutto più difficile però, prova ne sia la percentuale decrescente di presenza femminile tra i ricercatori e poi fra i docenti. Ci sono gli ostacoli legati ai progetti di vita, alla famiglia, ai figli. Per lei com’è andata? Ha una famiglia?
Mi sono sposata, sì, e ho una figlia che oggi ha 26 anni e che si è laureata in Economia in Bocconi. Ho vissuto la mia maternità senza assilli, facendo i salti mortali che fanno tutte le donne tra tate e nonni e coperture per le vacanze. Acrobata, dunque, a volte con sensi di colpa. Ricordo i pomeriggi in cui accompagnavo mia figlia a fare sport fuori Milano. Lavoravo col pc in macchina, aspettandola. Ma anche in questo caso ho vissuto tutto come una cosa normale: senz’altro non sono stata uguale a una mamma che non lavora, non potevo esserlo. Oggi lei è orgogliosa di me. Al Politecnico il tema ci sta a cuore ovviamente: offriamo supporto economico alle docenti che decidono di riprendere il lavoro di ricerca subito dopo la maternità e l’asilo nido è gratuito per le dottorande che diventano mamme.
Sente la responsabilità di essere un esempio anche per le altre donne?
Sì, e sento però anche quella importante di essere un esempio per gli uomini. Uno degli attacchi più frequenti che ho ricevuto dalla mia candidatura in avanti, visto che ero stata prorettrice con due rettori maschi, è stato quello di essere condizionata dagli uomini, di non essere autonoma. Altre volte sono stata criticata per essere troppo attenta alle donne. La mia posizione è sempre stata netta: volevo e voglio fare le cose giuste, non le cose giuste per qualcuno. Pari opportunità non significa far sì che chi resta indietro vada avanti, ma lavorare perché si parta tutti dallo stesso punto, perché la linea di partenza sia la stessa per tutti. Questo non vale solo per il genere, fermarsi alla sola parità di genere sarebbe sminuente. Il tema del diritto allo studio è decisivo e da questo punto di vista il Politecnico è impegnato in prima linea, anche con enormi investimenti propri, per fare tutto il possibile affinché tutti abbiano quello stesso diritto.
È stata comunque eletta con un consenso straordinario. Che tipo di leadership incarna?
La definirei inclusiva. Ho le mie idee, ma è indispensabile per me confrontarle con quelle degli altri in modo sostanziale. Ho articolato la governance in gruppi di lavoro, sulle diverse tematiche rilevanti per la strategia dell’ateneo. Lavorare e prendere decisioni condividendole con più persone è faticoso, ma significa avere ampiezza di sguardo sull’ateneo e agire con competenze diverse. Ho poi un team formato da 11 risorse, di cui 6 donne. Ci sono molti giovani: la sfida per affrontare il futuro è anche quella del ricambio generazionale e qui al Politecnico la stiamo affrontando con coraggio.
Alle donne che si iscrivono al Politecnico oggi e sognano di diventare come lei, un giorno, che cosa si sente di dire?
Devono osare. Se vogliamo contare davvero, e avere un impatto decisivo nella società, la tecnologia è fondamentale. Qui c’è l’occasione per raggiungere questo obiettivo.