Migranti. Alì, dal naufragio al teatro: «Così parlo ai fratelli d'Africa»
Alì durante un suo spettacolo di strada in Africa
Un sorriso luminoso scava rughe profonde sul volto di Fatima, segni del tempo e di una saggezza antica: «Prego Allah che ti regali una lunga vita, così potrai raccontare tante volte la tua storia. Ne abbiamo bisogno!». Alì, 21 anni, ringrazia accennando un inchino. È stanco, ha appena finito di recitare. Gli ultimi raggi di sole filtrano fra la polvere e i rami di un baobab. Fatima se ne va, avvolta nel suo lungo vestito bianco. Come lei prendono la via di casa centinaia di persone, che hanno assistito allo spettacolo. Poi però, parte una musica e molti si fermano a ballare, compreso Alì, insieme ad Omar, che ha salvato sua mamma. Alì è venuto fino a Velingara, in Senegal, per presentargli il suo spettacolo, 'Dem Rek, si parte!'.
Alì aveva quattordici anni quando il suo fratello maggiore, Mohamed, lo ha svegliato bruscamente: «Alzati, si parte!». Vivevano insieme alla loro madre, Aisha, in un angolo di una piccola casa a Serekunda, nella periferia di Banjul, capitale del Gambia. Gli hanno spiegato solo dopo, dove stavano andando: subito non lo avevano chiaro neanche loro. Prima per strada, facendo l’elemosina, poi sulle corriere, quindi sui cassoni dei camion. Obiettivo, il mito: l’Europa. In Gambia c’era la guerra civile, non c’erano prospettive, solo problemi in famiglia. Tanti sogni e pochi soldi. In Niger però, mamma Aisha decide di fermarsi. Non sta bene e soprattutto non hanno denaro sufficiente per viaggiare in tre.
I due fratelli proseguono il viaggio. Ricordi che segneranno per sempre la memoria di Alì: il deserto («di giorno si moriva di caldo e la notte di freddo»), il carcere («ci hanno chiusi in una cella buia e non sapevamo se e quando saremmo usciti»), le torture («mi urlavano: chiama i tuoi! Se non pagano, finisci male! Ma io non avevo nessuno»). Poi l’arrivo a Tripoli, miracolosamente vivi. Mohamed lascia il suo fratellino chiuso in casa («restavo solo tutto il giorno, e non andavo neanche in bagno, tanta era la paura») e riesce a racimolare i soldi per pagare la nave. Una notte, si parte: 650 persone stipate su un barcone dove a stento ce ne stava la metà. Un paio di giorni di navigazione e poi il naufragio. Alì si salva per miracolo, suo fratello e altre 500 persone annegano. Quindici anni, nudo, seduto sulla chiglia rovesciata della nave: «Pregavo, come tutti. Sentivo solo invocare Allah, Gesù...». Alì ce la fa anche questa volta, grazie alla Marina militare italiana.
Sbarca nell’agognata Italia, ma non è più lui: ha perso tutta la sua famiglia, e anche la parola. Era un ragazzo gioviale, vivace, chiacchierone. Ora è silenzioso, buio, introverso. Tanto da coltivare addirittura un pensiero che non lo aveva mai sfiorato: il suicidio. L’ennesima svolta nella vita di Alì ha il volto rassicurante di Andrea Santantonio, uno dei fondatori del Centro di Arti Integrate di Matera. Andrea invita Alì a recitare in uno spettacolo teatrale. Teatro sociale, terapeutico. Alì ricorda quel momento come fosse ora: «Non avevo mai recitato in vita mia. Loro ci invitavano a guardarci negli occhi. A me avevano insegnato il contrario: da noi per rispetto si tiene lo sguardo basso. Ho fatto fatica all’inizio, ma poi la mia vita è cambiata: il teatro mi ha ridato la parola!». Da allora Alì, che ancora oggi vive a Matera, collabora stabilmente col Centro di Arti Integrate, ha recitato in diverse città italiane.
Tornato in sé, ha cominciato a coltivare un sogno: perché non sfruttare quell’arte, quel linguaggio, per raccontare la sua storia anche alla sua gente? «Io non voglio fermare nessuno, chi deve partire parte. Troppe persone però non sanno quanto siano pericolosi questi viaggi. I drammi che ho vissuto io, li hanno conosciuti in tanti». Protagonista di una puntata di Radici, il programma di Rai 3 che racconta le storie dei migranti che vivono in Italia, Alì ha spiegato la sua vicenda a molti italiani, ma voleva che il suo messaggio arrivasse anche in patria. E così è stato.
Sette anni dopo la sua partenza, a piedi, per l’Europa, Alì ha preso l’aereo ed è tornato in Gambia con un copione in tasca: il suo. Protagonista, autore ed attore. Un 'one man show' tutto africano, all’insegna dell’improvvisazione. Dieci giorni di viaggio, tre scuole coinvolte e rappresentazioni per strada, l’ultima oltreconfine, a Velingara, in Senegal, Casamanche. Il messaggio Alì, che ha l’obiettivo di fermare qualche improvvido migrante, è arrivato in Africa grazie a un finanziamento europeo, nell’ambito del progetto 'Frame Voice Report!', gestito dal Cop (il Consorzio piemontese delle Ong) e affidato a due piccole realtà padane: Agape di Tortona e Anolf di Alessandria.
Tutto è iniziato nella Senior Secondary School di Sanyang. Alle 8 del mattino, venti studenti fra i 15 e i 18 anni si sono radunati davanti al 'prof' Alì: presentazioni, riscaldamento voce e poi recitazione, tutti insieme. Rappresentavano i migranti in nave, terrorizzati, fra le onde. E poi vittime dei carcerieri, fra urla e frustate, talmente realistiche che qualcuna è andata anche a segno... Molto più che un semplice laboratorio teatrale, sembrava una vera terapia di gruppo. Qualcuno era imbarazzato, alcuni ridevano, altri piangevano. Compreso lui, il professor Alì: «Sì, abbiamo pianto, ed ho pianto anch’io. Ci sta! È la mia storia, ma oggi è diventata anche la loro storia. Nel raccontarla non c’era solo la mia energia, ma anche la loro. Ecco perché le emozioni che abbiamo provato sono emerse, fra sorrisi e lacrime». Purtroppo molti ragazzi hanno vissuto esperienze simili a quella di Alì. «Mio padre piange tutti i giorni quando pensa al mio fratello maggiore, si chiamava Mohamed Sanneh. Era partito per aiutare la nostra famiglia. Un giorno ci ha telefonato un suo amico, Mohamed non ce l’ha fatta...». Mamadi aveva le guance continuamente rigate dalle lacrime. Anche Ousman è sconvolto: «Conosco persone del mio villaggio che si sono avventurate in questo viaggio e non sono più tornate». La storia di Alì, tocca anche il preside il preside, Morro Jimbara: «Molti giovani pensano di poter avere successo nella vita solo se vanno in Occidente. Per questo vogliono partire a tutti i costi, senza badare ai rischi».
Altra scuola, stessi problemi: «Alcuni dei nostri migliori studenti hanno lasciato gli studi per emigrare, erano ormai vicini al diploma. Abbiamo perso anche dei professori, uno studiava all’Università. Cercano una vita migliore, d’altronde qui un insegnante guadagna 120 euro al mese. Se hai famiglia ti puoi permettere solo il riso, non riesci neanche a comperare un po’ di pesce per i tuoi figli». Mohamed Lamin Dabor è il preside della Secondary School di Kauur, nel cuore del Gambia. Per aiutare studenti e professori ha avviato una coltivazione di banane, alle spalle della scuola. Il terreno è di proprietà dell’Istituto, ci lavorano allievi e docenti e le banane le mangiano nell’intervallo o le vendono per finanziare le attività scolastiche. Piccoli espedienti per cercare di risolvere il problema dei problemi: la povertà, causa principale delle migrazioni. Infine: Velingara, tappa finale del viaggio. Alì non è venuto solo per l’ultima data dello spettacolo, in strada. E neanche solo per Omar, con cui ha ballato al termine della rappresentazione. Alì doveva venire da sua mamma. Aisha aveva lasciato i suoi figli in Niger. Malata e senza soldi, chiedeva qualcosa da mangiare ai passanti quando un camionista, dopo averle offerto il pranzo, le ha offerto ospitalità a casa sua.
Quel camionista era lui: Omar. Vitto e alloggio gratis, per due anni. Poi la malattia di Aisha s’è aggravata, fino a portarsela via. Omar l’ha fatta seppellire nel cimitero di Velingara, dove ha accompagnato Alì, appena arrivato. Omar ha anche regalato un campo ad Alì, a pochi metri da casa sua. Lui non ci ha pensato due volte: su quel terreno costruirà un teatro dove si svolgeranno attività sociali, per i ragazzi. Fra febbraio e marzo porterà il suo spettacolo in una decina di teatri piemontesi, e raccoglierà i finanziamenti per questa iniziativa. Alì si sente in debito, con la sua gente: «Loro hanno avuto più coraggio di me, sono rimasti qua. Io invece sono andato via. Non è sbagliato, ma ora voglio portare qui quello che ho imparato. Ero a terra, il teatro mi ha detto svegliati! E sono ripartito. Sono ancora caduto, e cado. Ma poi mi rialzo. La mia forza è il teatro! Quando sono sul palco, divento un’altra persona. Spero che la magia del teatro faccia bene anche ai miei fratelli africani».