Covid-19. Aiutiamo più che mai l'Africa ad aiutarsi
Una pandemia è tale perché investe tutti gli angoli del pianeta. È di questi giorni la crescente preoccupazione per il progredire del coronavirus in Africa. Qualcuno aveva immaginato che il continente sarebbe stato quasi risparmiato dall’infezione. Nella stessa Africa alcuni Paesi vedevano negativamente un allarme che avrebbe avuto un pesante impatto sulle economie nazionali e hanno smesso di comunicare le cifre relative ai contagi e ai morti. In altri era stata la popolazione a contestare i decreti di chiusura, ricorrendo addirittura alla magistratura. Altrove, infine, si era detto sarebbe stato sufficiente far ricorso a rimedi tradizionali o comunque alla portata di tutti. In realtà, purtroppo, i numeri accelerano, e molti rumors circolano fra la gente. Si sa o si vocifera di ex presidenti, ministri e parlamentari malati o morti per il virus, si sospetta che i decessi improvvisi dei parenti, degli amici, dei vicini siano dovuti al Covid-19. Il virus si rivela sempre più un ospite indesiderato che bussa alla porta di ogni nazione. Del resto, sono gli stessi dati a dircelo. L’epidemia non dipende più, come all’inizio, dai viaggi internazionali, ma si diffonde autonomamente. E a gran velocità. Il quinto Paese al mondo per casi non è latinoamericano ma è il Sudafrica, con quasi 460.000 infezioni e oltre 7.250 morti (cfr. www.worldometers. info/coronavirus).
E in tutto il continente si contano oltre 874.000 contagiati e più di 18.500 decessi ufficiali. Già, ufficiali. Perché il grande tema è quanto siano affidabili i dati forniti in situazioni sanitarie sotto stress, nel quadro di una generale carenza di risorse e dovendo scontare una cronica difficoltà di comunicazioni. Che valore dare ai 15mila positivi della Costa d’Avorio quando risultano da 90mila tamponi, cioè un positivo ogni 6, ovvero ai 7mila della Guinea che scaturiscono da appena 14mila tamponi (1 positivo ogni 2)?
È chiaro che le cifre a disposizione sono solo la punta di un iceberg, che non fotografano la realtà di un’epidemia la quale, come abbiamo imparato in Europa, colpisce in maniera subdola. Il virus si muove oggi rapidamente anche in Africa mentre i posti in terapia intensiva sono davvero poca cosa, così come il numero dei respiratori è scarso e i dispositivi di protezione individuale in grado di tutelare gli operatori sanitari sono carenti un po’ dappertutto. E in più gli Stati africani devono fare i conti con le conseguenze economiche e sociali della pandemia nonché dell’azzeramento dei collegamenti con il Nord del mondo. Detto questo, il quadro resta articolato. Nel continente ci sono Paesi - il Ruanda, ad esempio - che hanno raggiunto risultati estremamente positivi nel contrasto della pandemia, sviluppando un sistema integrato di test, tracciamento e cure paragonabile a quelli utilizzati a latitudini ben più ricche di risorse. E c’è poi da registrare la vivacità e l’impegno sul campo delle mille realtà della società civile africana che cercano di arginare la diffusione del virus dando indicazioni di base sulla prevenzione: dal lavaggio delle mani al distanziamento fisico, all’uso delle mascherine. Colpisce pure la capillarità con cui i messaggi di prevenzione sono veicolati dai social media fino a raggiungere ognuno.
O realtà della cooperazione, come il programma Dream di Sant’Egidio, sostenuto dalla Cei, che si prodigano anche per i test sierologi. C’è almeno da sperare che il dramma dell’epidemia lasci in Africa, come eredità, una maggiore coscienza civile e più diffuse conoscenze d’igiene pubblica. Per aiutare il continente in questa fase difficile è urgente che gli Stati occidentali non diminuiscano l’aiuto pubblico allo sviluppo come sono tentati di fare ora. È nostro interesse che l’Africa sia resiliente alla pandemia: l’alternativa sarebbe drammatica. Contemporaneamente occorre operare per salvaguardare le rimesse (diminuite ma pur sempre la prima fonte di reddito esterno) rendendo meno cari i money transfer. È essenziale aumentare la connessione (in terapia e ricerca) tra sanità europee e africane utilizzando le comunicazioni online per condividere tutta la capacità scientifica necessaria. Infine, bisogna prepararci a distribuire il vaccino anche in Africa perché non sia lasciata indietro.