Africa, Italia, Europa: le ferite aperte e il gran lavoro di futuro da fare
Gentile direttore,
dopo aver letto la lettera del signor Fanchini sul Burundi (“Avvenire” del 16 aprile) e la sua risposta (https://tinyurl.com/acquiventi) mi sono tornate alla mente le parole durissime di mio marito (inviato de “L'Unità“, deceduto nel 2010), che con passione e dolore mi raccontava quello che aveva visto con i suoi occhi durante il genocidio che si è consumato in quei luoghi non più di trent'anni fa. Alle terribili immagini di allora – corpi mutilati nei villaggi, cadaveri che cadevano dalle cascate –, si aggiunge ora questo “pugno allo stomaco” dei bambini soli, vaganti, come dice il lettore-cooperatore, che mi hanno ricordato immediatamente quel che ho visto in prima persona pochi mesi fa in Sud Sudan: bimbi di varie età in giro ai bordi delle strade, con i più grandi che aiutavano i più piccoli, o anche bambini soli, vaganti nel nulla, seguiti da caprette e cani che sembravano accompagnarli. Anche per me questo è stato un vero pugno allo stomaco. A Giuba, capitale del Sud Sudan, in attesa dell'arrivo di papa Francesco (ero lì per lavoro), alcuni missionari, eroici e santi, ci hanno raccontato di come questi bambini – molti di loro provenienti dai campi di sfollati – non abbiano niente e spesso siano colpiti da infezioni che la missione si impegna a curare, o semplicemente si tratta di bambini senza nessuno cui la comunità dei religiosi offre accoglienza. Ho visto un Paese in cui, come descritto anche nel caso del Burundi, oltre a qualche palazzo istituzionale e al quartiere diplomatico – e, per fortuna, alcune chiese – impera il nulla, e avere una madre o un padre è un vero privilegio. Mi porto dentro queste immagini ma, soprattutto, una sensazione di precarietà, di deserto, mai percepita in modo così forte come in Sud Sudan. Condivido totalmente l'appello affinché il governo, i governi, guardino oltre il mero interesse nazionale, mettendosi a disposizione, con le loro competenze e risorse, dei Paesi più svantaggiati, dopo secoli di sfruttamento coloniale che ha visto coinvolte varie nazioni europee (pochi esclusi). Ora, la priorità per il cosiddetto mondo sviluppato sembra essere quella di respingere chi, disperato, è in fuga per la vita, come se il viaggio per la salvezza si potesse fermare con dei decreti. Prego perché questi bambini, soli e abituati fin da subito a lottare per sopravvivere almeno un giorno in più, trovino conforto nel calore dei tanti volontari – cattolici e laici – che dedicano il loro tempo e il loro amore all'aiuto degli ultimi, senza mettere al primo posto la convenienza. Grazie e buon lavoro.
Gentile direttore,
faccio eco alla lettera del signor Giovanni Maria Fanchini pubblicata su “Avvenire” di domenica 16 aprile, sulla realtà del Burundi, alla quale lei ha voluto rispondere, auspicando una attenzione verso questo pezzo di mondo e verso lo stile di presenza che operatori e missionari lì continuano a vivere. Le scrivo perché sono appena tornato anche io dal Burundi (come direttore dell’Ufficio per le missioni), testimone di una storia di più di 60 anni di cooperazione tra la diocesi di Brescia e il Burundi, in modo particolare la diocesi di Ngozi dove, a Kiremba, donammo a Paolo VI un ospedale e una missione in occasione della sua elezione al Pontificato. Un dono che ancora oggi continuiamo ad accompagnare, insieme a molte altre realtà bresciane (e non solo), nel Paese “delle mille colline verdi”; un luogo speciale che rapisce il cuore e continua però a vivere, come scriveva anche il signor Fanchini, in mezzo a condizioni di vita inimmaginabi-li, che generano fenomeni di marginalità notevoli e soprattutto con una malnutrizione dilagante, non essendoci davvero cibo a sufficienza per tutti e una educazione adeguata. Impressionano la quantità di bambini in cammino sulle strade, chissà dove diretti e chissà per quale motivo. Si ha l’impressione di una situazione di povertà da cui non si riesce a uscire; nell’ospedale di Kiremba e nel progetto sui centri di salute che realizziamo insieme a Medicus Mundi Italia (finanziato dall’8x1000 della Cei) riusciamo a custodire la vita di molti bambini nati in condizioni assai precarie di salute e in situazioni di malnutrizione estrema. Ci piacerebbe trovare più sostegno per questa opera, ma non è semplice; l’Europa fatica a capire che oggi si muore ancora di fame... vedere questi adolescenti sfiniti senza cibo al pronto soccorso di Kiremba resta un pugno nello stomaco... e da qui facciamo fatica a sostenere le nostre attività laggiù. Sarebbe bello davvero poter trovare più ascolto e sostegno. Noi ci siamo per continuare, sperando che qualcuno continui a credere in noi, perché come diceva il nostro amato santo Paolo VI «ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera» (Populorum Progressio 14).
Gentile direttore,
dalla lettera del signor Gian Maria Franchini alla quale lei ha risposto il 16 aprile scorso, mi pare che una cosa appaia p iù evidente di altre considerazioni e cioè l’estrema necessità che le nazioni cosiddette “ricche” si impegnino ad aiutare sul posto le altre consorelle africane in gravi situazioni di vita. Come dicono alcuni cardinali africani, che vivono direttamente tali condizioni, l’emigrazione non fa che ulteriormente impoverire i loro Paesi, privati così dalle migliori forze. Si riuscirà mai a programmare aiuti senza tornaconti economici o sociopolitici?
Dico grazie dal profondo del cuore alla gentile signora De Santis e al caro don Ferranti, con le loro lettere-testimonianza, che affiancano quella del signor Fanchini, dialogando con le cronache di “Avvenire” e coi miei pensieri. Posso dire che continueremo a fare la nostra parte per sostenere sguardi e azioni profondi ed efficaci e costruire una relazione giusta e salda tra Europa e Africa (chi ci segue sa che cosa vuol dire progettare un Continente Verticale). Africa nella quale, lo confermo al caro dottor Bressani, si deve essere liberi di restare e liberi di partire, come in ogni altro pezzo di mondo. È ciò che dicono anche vescovi e cardinali di quel continente, che sanno meglio di noi che le persone si sradicano dalla propria terra perché costrette da guerre, persecuzioni, sfruttamenti, cambiamenti climatici e miseria. Eppure, in stragrande maggioranza, restano lì, il più possibile vicino ai luoghi cari. Continuiamo a documentarlo certi che alla fine la verità sarò più forte di slogan storti e falsi. Tutti e tre i nostri lettori hanno ragione su un punto chiave: la collaborazione euro-africana può e deve essere conveniente per tutte la parti, non solo per una o, peggio, appena per alcuni. La “politica” sia davvero grande e lavori per questo insieme a chi, umilmente e tenacemente, “dal basso” e molte volte nel nome altissimo di Cristo già lo fa.