I segnali di malessere. Attenzione all'Africa, un continente in esplosivo subbuglio
La drammatica escalation di violenze nella regione etiopica del Tigrai è l’ennesimo segnale del malessere che investe il Corno d’Africa e in termini generali l’intero continente. Infatti, è sempre più evidente la contrapposizione tra le forze governative etiopiche (affiancate da reparti dell’esercito eritreo e amhara) e il Fronte di Liberazione del Tigrai (Tplf) che oppone una strenua resistenza.
La dice lunga la recente riconquista di Macallè (capitale tigrina) da parte dei ribelli tigrini i quali a questo punto rivendicano una totale autonomia nei confronti del potere centrale di cui è paladino il presidente Abiy Ahmed Ali. Fu proprio Abiy, premio Nobel per la pace 2019, a scatenare il 4 novembre scorso questa disastrosa guerra civile in cui sono stati perpetrati crimini d’ogni genere. A detta di autorevoli esperti di diritti umani e diritto internazionale, molte delle azioni perpetrate nelle zone di belligeranza dall’esercito etiopico e da quello eritreo potrebbero essere qualificate, nell’ambito dell’ordinamento giurisprudenziale in sede internazionale, come «crimini di guerra» e «contro l’umanità». Rimane il fatto che questa crisi del Tigrai rappresenta una spina nel fianco dell’intero scacchiere orientale africano, già duramente provato dalla crisi somala e dal contenzioso regionale sull’utilizzo delle acque del fiume Nilo che vede coinvolti, oltre all’Etiopia, il Sudan e l’Egitto.
Purtroppo anche sul versante opposto, quello Saheliano, lo scenario è infuocato, soprattutto nel triangolo frontaliero compreso tra il Mali, il Niger e il Burkina Faso, dove imperversano diverse formazioni di matrice jihadista che si richiamano ad al-Qaeda e al Daesh. Se a tutto questo aggiungiamo, per citarne solo alcune, le divisioni interne alla neonata Repubblica Sud Sudanese, le crisi armate nel Nord della Nigeria, nella Repubblica Centrafricana e nel settore orientale dell’ex Zaire, hanno ragione gli inglesi a parlare di «Africa in turmoil» (Africa in tumulto). Di fronte a questi scenari di belligeranza, si assiste al radicale indebolimento dell’architettura statuale, in gran parte prodotto dalle dinamiche impresse dalla decolonizzazione formale, ma non sostanziale e dalla globalizzazione dei mercati, tradizionalmente estranee alla storia africana. Infatti, per le etnie disseminate nel continente, prima della conquista operata dagli europei, non vi era mai stata un’esplicita relazione fra quello che noi occidentali definiremmo "sentimento di appartenenza a un territorio" e il cosiddetto "perimetro della sovranità".
Tutto questo con il risultato che, dopo le indipendenze, si è consolidato, con varie declinazioni lo Stato Nazione conferendo alle etnie i compiti di costruire gerarchie sociali, di fondare partiti, di sancire l’occupazione "legittima" – perché, appunto, etnicamente giustificata – del territorio, di rappresentare un sentimento nazionale, fornendo un sostegno artificiale che molto spesso non ha trovato un felice riscontro nell’azione di governo.
Su questo percorso si è innestato in alcuni casi il ricorso alla religione (emblematica è l’applicazione della sharia islamica) per legittimare lo Stato, con effetti decisamente dirompenti per la tenuta della medesima sovranità statuale, di fatto privata di autonomia non solo formale, ma anche e soprattutto identitaria. E mentre nei decenni della 'guerra fredda' le forme politiche prevalenti erano spesso a partito unico, oggi il multipartitismo è più volte apparente, e decisamente centralistico, così da scongiurare idealmente i 'rischi' del pluralismo etnico.
Il comportamento del presidente etiope Abiy è stato certamente ispirato da questo indirizzo, una sorta di 'federalismo di facciata', che comunque alla prova dei fatti, con il ricorso alla violenza, si è rivelato fallimentare. Su questa base si sono difesi i confini degli Stati che hanno manifestato, proprio perché deboli, i tratti di una «sovranità patrimoniale» che consente a dittatori navigati come l’eritreo Isaias Afewerki o l’ugandese Yoweri Museveni di rimanere saldamente al potere. Tutto ciò mentre continuano le interferenze straniere che acuiscono le diseguaglianze, legate in gran parte allo sfruttamento delle immense ricchezze naturali africane. È questo insieme di fattori critici che rende a dir poco incerto lo scenario geopolitico nel continente che è il cuore più antico e più giovane dell’umanità.