editoriale. Afghanistan, transizione infinita
Le elezioni presidenziali di oggi rappresentano molto probabilmente il tornante più critico sulla strada che, a fine 2014 (dopo un processo di transizione durato quattro anni), dovrà consegnare in maniera completa e definitiva la responsabilità per l’amministrazione e la sicurezza del Paese alle autorità afghane. Si tratta di un passaggio particolarmente delicato, se solo si pensa che in nessuno – nessuno – di tutti gli Stati dell’Asia centrale l’avvicendamento dei vertici politici è avvenuto in maniera pacifica o, semplicemente, è mai avvenuto negli ultimi decenni.
Il Kazakistan, l’Uzbekistan, il Tagikistan, il Kirghizistan, il Turkmenistan: tutti sono governati senza soluzione di continuità dalla stessa élite che deteneva il potere al momento del crollo dell’Unione Sovietica. Paradossalmente è solo in Iran che le elezioni mantengono un margine di incertezza e imprevedibilità, sia pur con rischi cospicui di brogli e sempre dopo la sistematica esclusione dalla competizione dei candidati più laici da parte delle autorità religiose. Basterebbe questo, quindi, per spiegare come la sostituzione di Hamid Karzai (eletto per la prima volta presidente nel 2004 e confermato per un secondo mandato nel 2009) rappresenti tutt’altro che una scommessa vinta in partenza.
La Costituzione afghana, promulgata nel 2005, assegna al presidente un potere per nulla cerimoniale o rappresentativo, e Karzai, nei dieci anni del suo mandato, ne ha esteso i già ampi margini attraverso prassi che hanno saputo sfruttare la frammentazione del fronte dei suoi oppositori. L’impianto costituzionale è di stampo presidenzialista: un misto tra il sistema francese e quello americano, con inserti di cancellierato alla tedesca, il tutto completato dalla totale assenza di federalismo o anche di un semplice effettivo decentramento. La Costituzione prevede che il presidente detenga il potere esecutivo e gli concede un ampio vantaggio sull’iniziativa legislativa. Se è vero che le leggi devono essere varate con il consenso delle due Camere – riservando solo alla Camera Bassa (Wolesi Jirga, di 249 membri, il 28% delle quali donne) la prerogativa di concedere la fiducia e di sfiduciare il governo o singoli ministri – è indiscutibile che è nella struttura centralistica e nel diritto di nomina che Karzai ha trovato il modo di ingigantire il suo potere.
Al presidente spetta infatti il diritto di nominare non solo i ministri, le alte cariche dello Stato e i vertici delle forze di sicurezza, ma anche le autorità indipendenti, i governatori provinciali, un terzo della Camera Alta (Meshrana Jirga, 102 membri) e i giudici (compresi i 9 membri della Corte Suprema). Dal presidente dipende, poi, anche l’allocazione delle risorse finanziarie raccolte attraverso il sistema fiscale (tutt’altro che efficiente) e dalla messe di finanziamenti e aiuti attraverso i quali i donatori internazionali hanno finora consentito la sopravvivenza dello Stato afghano. Questo meccanismo fa sì che nelle sue mani si concentri un potere discrezionale notevolissimo, capace di piegare la resistenza degli oppositori o di portarli dalla propria parte. È quello che si è verificato nel passato anche recente con alcuni governatori provinciali, ed è anche lo strumento che Karzai sta impiegando per cercare di condizionare l’elezione del suo successore, favorendo l’accorpamento o la desistenza di alcuni candidati a favore di altri o, più spesso, contro quelli a lui più invisi.
La possibilità che Karzai possa influenzare l’elezione del nuovo leader di Kabul preoccupa particolarmente gli americani e, più in generale, l’Isaf (la forza militare Onu di stabilizzazione), che hanno scaricato da tempo il loro ex pupillo, stanchi della corruzione e del nepotismo che hanno caratterizzato tutti gli anni della sua amministrazione, ma soprattutto irritati per la crescente "indipendenza" mostrata da Karzai. Dopo essersi opposto invano alla strategia del "surge" voluta da Bush ai tempi del generale Petraeus e alla massiccia campagna di droni decisa da Obama, Karzai si è preso la rivincita non firmando quell’accordo sulla sicurezza che, concedendo l’immunità alle truppe americane (e Isaf) anche dopo il 2014, dovrebbe consentire la permanenza di 5.000/10.000 soldati alleati anche dopo la data fissata per il ritiro del grosso delle truppe. Di fronte al suo rifiuto, gli americani hanno fatto spallucce, contando di ottenere la firma dal suo successore. Ma la cosa potrebbe diventare più complicata se questi fosse eletto anche grazie ai maneggi di Karzai.
Tanto peggio per gli americani? Non solo. Perché nonostante l’indubbio aumento delle capacità offensive dimostrate dalle forze di sicurezza e di polizia afghane (probabilmente il maggior successo raggiunto dalla missione Isaf, che peraltro proprio questo si proponeva esplicitamente), molti nutrono parecchi dubbi sulla loro affidabilità, se lasciate completamente a se stesse. Un esito simile configurerebbe il ritorno a una situazione pre-2012, quando ancora gli insorgenti controllavano intere aree del Paese ed erano in grado di riprendere il controllo di altre zone durante le ore notturne, senza che il potere centrale potesse reagire.
Sulle condizioni di sicurezza gravano almeno alte due incognite maggiori. La prima è relativa alla possibilità di sostenere il costo di un apparato che tra esercito, polizia nazionale e altre forze a reclutamento locale impiega quasi mezzo milione di persone. Non è infatti detto che i donatori internazionali continueranno a essere così generosi una volta che il grosso delle truppe straniere avrà lasciato l’Afghanistan. La seconda è rappresentata dall’ingerenza che il Pakistan (e per suo tramite l’Arabia Saudita) continua a esercitare sul Paese, contribuendo in maniera decisiva a destabilizzarlo, attraverso il finanziamento e l’ospitalità concessi alle formazioni post-talebane. A parziale bilanciamento di quest’azione negativa esercitata dagli eterni rivali di Islamabad, stanno il contributo positivo fornito dall’Iran, che tutto desidera meno che il ritorno di un potere fondamentalista sunnita a Kabul, e quello cinese, che intende sfruttare in maniera assai più massiccia le concessioni minerarie ottenute in questi anni.