Opinioni

Il direttore risponde. Afghanistan, l’escalation che serve

mercoledì 13 ottobre 2010
Caro direttore,in questi giorni di dolore e di preghiera per le vittime italiane in Afghanistan, mi hanno colpito le parole di Francesco Vannozzi che ha perso la vita nell’attentato. Sulla sua rete telematica egli ha scritto una frase di Albert Einstein: «Non so con quali armi combatteremo la terza guerra mondiale, ma nella quarta useremo sassi e bastoni». Ha citato colui che nel primo dopoguerra invitava con insistenza ad adottare «una nuova mentalità». Se non riusciremo a eliminare le guerre, egli diceva, saranno le guerre ad eliminarci tutti. Qualche anno dopo sarà il Concilio ad affermare che la pace è «un edificio da costruirsi continuamente con mentalità completamente nuova» (Gaudium et spes, 78 e 80).Penso che il il miglior modo di onorare le vittime della violenza sia quello di evitare altre tragedie e di prevenire ulteriori lutti. In Afghanistan, lo strumento militare è il meno adatto a risolvere problemi complessi e drammatici in una situazione che vede accanto alle forze straniere occidentali, contractors privati, presenze militari pakistane e iraniane, signori della guerra, mercanti di oppio, forze insorgenti, gruppi terroristi, criminalità comune e disperazione economica. In tale contesto, ogni violenza genera altra violenza, ogni attacco produce un altro attacco. Ogni bombardamento aereo altre vittime innocenti. L’ipotesi del ministro della Difesa, osserva un ex comandante Nato (il generale Fabio Mini), è rivolta ai guadagni delle corporazioni militari-industriali: in Afghanistan, già «si bombarda troppo senza curarsi delle vittime, ci sono anche troppi bombardieri che non garantiscono sicurezza». È assurdo, insomma, condurre una «missione di pace» bombardando.Lo strumento bellico, da dieci anni in azione, non funziona. Solo la pace con mezzi di pace, cioè «la nonviolenza attiva», tiene aperta la speranza. Una presenza di pace deve basarsi su politiche di pace a tutto campo. Occorre coinvolgere alcune istituzioni e realtà: l’Unione Europea, che in questi giorni si riunirà per mettere a fuoco il problema dei mercanti dell’oppio; l’Onu, che può promuovere una Conferenza internazionale per il disarmo e la denuclearizzazione del Medio Oriente e dell’Asia; il Parlamento italiano che deve ripensare a fondo l’attuale politica; le religioni, la società, ognuno di noi.Secondo me, il graduale ritiro delle truppe dall’Afghanistan deve essere accompagnato da una seria riconversione civile della presenza militare e da una vera cooperazione internazionale che può usare o il denaro che stiamo spendendo militarmente in quel Paese o quello per la costruzione degli F35 nei pressi di Novara. La Costituzione ci spinge a formare un ordinamento internazionale basato sul ripudio della guerra. La fede cristiana ci chiama a impegni di «disarmo integrale» (è l’urgenza indicata dalla Pacem in terris).Il primo gennaio 2010, dopo aver parlato dei volti dei bambini sofferenti (sfigurati dalle violenze), definiti «riflesso della visione di Dio sul mondo», «profezia dell’umanità che siamo chiamati a formare», «appello silenzioso alla nostra responsabilità», Benedetto XVI ha osservato che «di fronte alla loro condizione inerme crollano tutte le false giustificazioni della guerra e della violenza. Dobbiamo semplicemente convertirci a progetti di pace, deporre le armi di ogni tipo e impegnarci tutti insieme a costruire un mondo più degno dell’uomo». Il Dio della pace, invocato al Sinodo del Medio Oriente, guidi i nostri passi sulla strada nonviolenta di una intelligente speranza.

Sergio Paronetto, Verona vicepresidente di Pax Christi

La situazione in Afghanistan, caro Paronetto, non consente facili illusioni. E la sua lettera riassume con indubbia efficacia il perché. Tanto più che in quella terra aspra e divisa si combatte non solo da dieci anni, bensì – praticamente senza interruzione – da secoli. E dal 1979 (anno dell’invasione sovietica) a oggi con una continuità drammatica e impressionante. È un fatto, certo, che la guerra ha riprodotto solo se stessa e che si è confermata – con l’oppio – la principale "industria" del Paese. Ma è un fatto anche che è continuato, dopo l’intervento internazionale del 2001, "autorizzato" dall’Onu e guidato dagli Usa, un faticoso e contraddittorio cammino verso una forma tribal-democratica di esercizio della sovranità statuale accompagnato da altrettanto faticosi e preziosi tentativi di sostenere uno sviluppo umano ed economico seriamente alternativo a quello basato sul dominio dei "signori della guerra". Noi italiani, con un contributo chiave nella ricostruzione del sistema giuridico del Paese e con iniziative timide eppure non irrilevanti sul fronte della cooperazione, non ci siamo limitati solo all’invio di un corpo di spedizione militare e a una presenza in armi e in aiuti umanitari segnata da piccoli grandi successi e da gravi lutti. Per questo è giusto valutare bene l’escalation da innescare in quello scenario: e anch’io credo che l’urgenza di preparare e articolare un’escalation di autonomia (per il Paese) e di pacificazione (nell’intera area) è sotto gli occhi di tutti. E una necessità politica e strategica, non è solo un’ambizione da "sognatori di pace"... Più facile a dirsi che a farsi, è vero. Ma la costruzione della pace nella giustizia e nella libertà è una sfida, non una passeggiata. E finalmente, caro Paronetto, di questa sfida se ne parla concretamente, e anche nelle sedi sovranazionali proprie. Come si parla di «gradualità» nel «disimpegno», e forse si comincia a chiarire bene l’impegnativo senso di un tale ritirata. Dell’Afghanistan non possiamo più lavarcene le mani.