Opinioni

A 25 anni dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia. Adozioni, si fermino le presunzioni

Luciano Moia sabato 28 maggio 2016
A 25 anni dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia «SSuperiore interesse del minore». È il principio ispiratore della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che l’Italia ha ratificato il 27 maggio 1991. Venticinque anni dopo cosa è rimasto di quel protocollo illuminato? Sui dati drammatici della situazione mondiale inutile soffermarsi. Basterà ricordare i circa 190 milioni di bambini nel mondo che vivono senza famiglia, per sottolineare il baratro incolmabile tra i buoni princìpi e la realtà. Ma non è che in Italia ce la passiamo tanto meglio. Venticinque anni fa il popolo dei bambini e degli adolescenti al di sotto dei 18 anni, rappresentava quasi un quarto della popolazione. Oggi siamo scesi al 16,7%. Inevitabile, visto che nascono circa 70mila bambini in meno ogni anno. Un crollo direttamente proporzionale all’efficacia delle nostre politiche per la famiglia. I giuristi che hanno approfondito il senso della Convenzione del 1991 sono concordi nel considerare che, tra i primi diritti da iscrivere in quel «superiore interesse», ci sia quello di relazioni stabili e significative con entrambi i genitori. Vivere cioè in una famiglia composta da un papà uomo e una mamma donna. Era anche il senso della legge 184 del 1983 sulle adozioni che oggi si vorrebbe capovolgere introducendo in modo stabile – come annunciato più volte durante le audizioni in corso alla Commissione giustizia della Camera – il principio della stepchild adoption nella nuova riforma. Ma chi ha stabilito che nel «superiore interesse del minore» debba essere compresa anche la possibilità di vivere con il partner omosessuale di uno dei due genitori? La giurisprudenza, è bene dirlo subito, non è di grande aiuto. La Cassazione, sul tema, è stata finora sul tema elusiva e ambigua. L’11 gennaio 2013 i giudici di legittimità hanno spiegato che il «superiore interesse del minore» non viene messo in discussione per il fatto di vivere con due genitori omosessuali, almeno fino al momento in cui non si dimostri che la situazione sia «fonte di nocumento per il minore». Che tradotto significa: vediamo se il piccolo riporta qualche conseguenza nel suo processo di crescita e nel suo equilibrio psicologico e cognitivo, e poi decidiamo. Conclusione discutibile dal punto di vista educativo, perché qualsiasi esperimento antropologico che abbia come oggetto un bambino non è soltanto inaccettabile, ma rischia di diventare scelta irresponsabile. Ma se il diritto non ci aiuta, quali altri strumenti abbiamo in mano per valutare se il «superiore interesse del minore» possa o meno venire intaccato dalle conseguenze di una convivenza con il partner omosessuale del genitore? Le tante ricerche sul campo realizzate a livello internazionale - quasi esclusivamente tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia - sono del tutto inservibili. Per i quasi cento dossier proposti nell’ultimo decennio dalle associazioni Lgbt, che vorrebbero teorizzare la tesi della 'nessuna differenza' tra genitori etero e omosessuali, ce ne sono altrettanti di opinione opposta che smontano regolarmente quelle conclusioni: campioni scientificamente inaffidabili, presupposti non verificabili, utilizzo di riferimenti sociologici viziati da appartenenza a gruppi e associazioni ben definiti. Chi ha voglia di verificare e, soprattutto, di approfondire il tema senza occhiali ideologici, non potrà che adottare l’unica decisione coerente: sospendere il giudizio. Scelte esattamente opposte a quelle decise negli ultimi sei mesi da diversi nostri tribunali, che sembrano aver innescato una poco edificante competizione per approvare tutte le possibili richieste di stepchild adoption. L’ultima ancora ieri dal Tribunale di Torino che ha dato il via libera alla domanda avanzata da due coppie di donne.  «Semplicemente la tutela di una situazione di fatto», ha commentato la presidente della Corte d’appello. Peccato che questa «tutela» venga realizzata con l’interpretazione estensiva di un articolo della legge sulle adozioni – in particolare il comma 'd' dell’articolo 44 – che trent’anni fa non era certo stato concepito con questo obiettivo. Qual è allora la strategia di questa corsa ad anticipare la riforma della legge sulle adozioni? Si vogliono blindare le decisioni del legislatore, tracciando una strada preordinata e a senso unico? Si intendono amplificare le dimensioni di una domanda che rimane comunque minoritaria per dimostrare la necessità di 'aprire' a ogni costo? Bene, si portino argomenti convincenti e si dimostri che quello è l’approdo più opportuno e più utile per tutti. A cominciare dai bambini. In ogni caso, sembra certo che questa spinta giuridico-mediatica a trascurare in modo preventivo il principio di precauzione, non serve alla riflessione comune in vista della riforma della legge sulle adozioni. Intervenire in un settore così complesso e così delicato con l’accetta dell’ideologia non potrà che tradursi nel meno confortante dei risultati: peggiorare la legge esistente e ignorare le richieste ragionevoli delle famiglie e delle associazioni – quelle che hanno a cuore davvero il «superiore interesse del minore» – per approvare quelle modifiche finalizzate a offrire, in modo più agevole e più razionale, la possibilità di vivere in una famiglia a un bambino che non ce l’ha. Unico principio accettabile. E che non è ammesso rovesciare.